“Vie islamiche alla nonviolenza”, prima traduzione italiana degli scritti di Jawdat Said, conosciuto anche come il “Gandhi dei musulmani”. Libro piccolo e densissimo, “Vie islamiche alla nonviolenza” è la materializzazione di un sogno nato a Damasco molti anni fa, dall’amicizia con Naser Dumairieh, oggi alla McGill University di Montreal, curatore del volume per Zikkaron, e con Paola Pizzi, eccellente traduttrice dei testi.
Jawdat Said proviene dal Golan siriano, dov’è nato nel 1931. Allontanato dall’insegnamento e arrestato più volte per le sue idee, sbatacchiato qua e là dai rovesci della vita, ivi inclusa la distruzione del suo villaggio nel 2013, campa oggi da profugo ottantaseienne a Istanbul. Un araldo di pace dall’interno delle fonti islamiche. Dall’interno, questo è il punto. Sulla narrazione coranica di Abele (sura 5,27-28), che rifiuta di difendersi dalla furia omicida del fratello Caino, e sull’affermazione “non c’è costrizione in materia di religione” di sura 2,256, Jawdat fonda il principio islamico della assoluta nonviolenza. Fulminanti, quasi tweet di luce, certe sue affermazioni: “Pazientare di fronte alle offese altrui, senza rispondere all’offesa con l’offesa”; “Abbandonare la violenza fisica non è sufficiente, finché non abbandoniamo la violenza verbale”; “È la purezza del cuore e la sua guarigione dalla violenza a creare il regno dell’amore”; “la violenza è una sconfitta ideologica”; “oggi la guerra non è più uno strumento attraverso il quale si risolvono conflitti”; “considero i giovani che vengono mandati in guerra per uccidersi tra loro alla stregua dei sacrifici umani che gli antichi offrivano ai loro dei”; “proteggendo la diversità e mettendo in relazione le persone si libera la verità”; “l’errore ha il diritto di vivere”.
Poi, a p. 42, una cosa importantissima, apparentemente (solo in apparenza) su tutt’altro livello: “La shari‘a di Dio è la giustizia, non le leggi parziali, poiché gli esseri umani possono stabilire ciò che è giustizia in ogni epoca. La shari‘a di Dio è la giustizia tra la gente e il concetto di giustizia si sviluppa verso il meglio: ciò significa che quel che è utile abrogherà quel che è meno utile”. Vedo qui l’idea della progressione del diritto in parallelo all’evoluzione della storia. Non voglio assolutamente sminuire la portata della mistica nell’islam, le grandi intuizioni spirituali dei musulmani, ma è indubbio che, nel suo impianto di fondo, l’islam sia una religione legale, una religione del diritto. Ciò significa che le soluzioni ai grandi nodi del rapporto tra islam e modernità (o postmodernità) vadano trovate nel diritto musulmano, mai aggirando il diritto o camuffandolo sotto altre spoglie. Un esempio è quello recentissimo degli ulema marocchini, che sulla base di un lavoro accurato sulle loro fonti giurisprudenziali, fonti islamiche, sono giunti alla conclusione che l’apostata oggi non vada più messo a morte, poiché la ragione (علة) dell’esecuzione capitale poggiava sulla qualificazione dell’apostasia come reato di alto tradimento dello stato. Cambiare religione oggi non mette più in pericolo la sicurezza dello stato, quindi niente taglio del collo. Il diritto, dice Said, deve muoversi nella direzione dell’utilità per la comunità delle persone. E ciò che è utile (نافع) non è mai definito una volta per tutte. Questa è giustizia (عدل) scopo della shari‘a.
Si può pretendere di dire che Jawdat sia il portavoce dell’islam? Che parli a nome di tutti i musulmani? Certo che no. È anzi più facile dire che parli a nome di una esigua minoranza. Ma si tratta in ogni caso di un musulmano tra musulmani. Aiuta i non musulmani a cogliere la pluralità di idee all’interno dell’universo islamico, non riducibile a una realtà monolitica se non a prezzo di ideologiche deformazioni. E può essere molto utile anche ai musulmani italiani ed europei, ai quali spetta dare forma a un islam italiano ed europeo pienamente partecipe di una società democratica e plurale.
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