Il terrorismo, l’insidioso rischio attentati, la paura di guardare l’altro, conoscere l’altro, volgere il proprio sguardo verso il volto dell'”altro”, il diverso da sè… sono solo alcune delle problematicità cui rischia di incorrere una società globalizzata e fatta di reti plurali di scambio commerciale, sociale e culturale come la nostra. Siamo spaventati di perdere la nostra libertà di viaggiare, muoverci, andare ai concerti, partecipare a eventi, conoscere luoghi…Ma soprattutto rischiamo che la paura ci tolga anche la libertà conoscere persone, allargare gli orizzonti della propria umanità incontrandoci l’uno con l'”altro”. Che fare allora? Come si combattono i semi del terrorismo anche in carcere? Il protagonista di questo breve brano, tratto dal volume “Leila della tempesta” di Ignazio De Francesco, è un volontario di un grande carcere italiano che di settimana in settimana ha incontri regolari con i detenuti stranieri del carcere. A uno di questi un giorno pone queste domanda. Ecco com’è andata…
di Ignazio De Francesco
«Siamo spaventati, Abdallah». «Di che cosa?». «C’è bisogna che te lo dica? Tutti questi attentati, uno stillicidio: sedi di giornali, luoghi pubblici, club privati, aeroporti, discoteche, impianti sportivi, alberghi, chiese. Dove sarà il prossimo, quando?». «Perché me ne parli?». «Ricostruendo le biografie di questi attentatori, quasi sempre salta fuori il carcere. Si ha la sensazione che il regime di detenzione sia il brodo di coltura ideale di questo terrorismo nel nome di Dio, o di Allah, come preferisci chiamarlo». «Sei venuto a chiedermi di farti dei nomi?». «Non è questo che m’interessa, lo sai bene. Non vado in cerca di nomi né con te né non nessun altro. Quello che m’interessa è capire, solo capire. E io so che tu mi puoi aiutare».
«Ci sono cause generali e altre personali. Sono come due filoni della storia: quella del mondo, sotto gli occhi di tutti, e quella invisibile delle singole persone». «Cominciamo da quella del mondo». «Il travaglio dei popoli, che oggi sembra concentrarsi proprio lì dove vivono in maggioranza i musulmani. Il bisogno di giustizia dei popoli: quanto più aumenta questo bisogno tanto più sembra allontanarsi la possibilità di soddisfarlo. È come un saràb». «Il miraggio nel deserto». «Sì, il saràb: muori di sete, vedi l’acqua e cerchi di raggiungerla, ma lei si sposta più in avanti. Cammini e lei si sposta, ti trascini sin là e lei si sposta, fino a quando non ti rendi conto che quell’acqua proprio non c’è. Anzi c’è, ma non nella realtà; c’è solo nella tua immaginazione. È così che accade per il bisogno di giustizia dei popoli». «Poi la storia personale». «Quella è tutto il contrario del miraggio, perché è tutta fatta di cose che tocchi con mano, anzi ti vengono addosso una dietro l’altra: disoccupazione, rapine, spaccio, l’arresto, la cella». «E in cella?». «Può accadere una cosa strana: sai benissimo di avere fatto degli sbagli, qualunque cosa tu vada a dire in tribunale, ma una volta in cella, col passare dei giorni, delle settimane, dei mesi, cominci a maturare la convinzione che tu stia subendo un’ingiustizia, un’enorme ingiustizia. Non sei più il colpevole ma la vittima». «Un errore giudiziario?». «Non parlo di quello – anche se ce ne sono, eccome – ma della sensazione che quello che stai subendo in carcere sia molto più pesante di quello che hai commesso». «Cosa succede allora?». «Ti sale dentro una rabbia incontenibile contro quello che ti sembra essere il “grande sistema dell’ingiustizia”. Puoi reagire lasciandoti andare ancora di più a fondo: sbatterti ancora di più, sino al suicidio, oppure aspettare la liberazione solo per tornare a delinquere, facendo del crimine il destino scritto per te. Ma c’è un’altra possibilità». «Quale?».
«Come una folgorazione. Nell’oscurità dei tuoi giorni ti accorgi d’improvviso che la linea della grande storia, con le enormi ingiustizie di cui si parla continuamente alla televisione, s’incrocia perfettamente con la linea della tua minuscola storia, con le enormi ingiustizie che ritieni di subire e che tu solo conosci». «Che cosa c’entra in tutto questo la religione?». «È la prima risposta, immediata, al bisogno di giustizia, tua e del mondo. In carcere ho visto conversioni fulminee, nell’arco di giorni, di ore. Gente che ne aveva combinate di ogni genere, che magari aveva rotto in anni passati con genitori troppo pii e devoti. Persone che non volevano saperne nulla di preghiera e digiuno e che in una notte fanno di queste cose precise la ragione della propria esistenza». «Non potrebbe essere una buona ragione?». «Sì, la religione è santa, ma rischiosa se mescolata all’ignoranza». «Cosa intendi per ignoranza?». «I frammenti di religione, cose raccolte qua e là, senza alcun ordine. Oppure spacciate per vere, mentre sono false». «Puoi farmi qualche esempio?». «C’è chi ti parla solo di jihad. C’è chi ti abitua a mescolare benedizioni e maledizioni nella preghiera, ti abitua a dire “àmìn” alle maledizioni pronunciate da chi guida la preghiera. C’è chi ti dice che vendere droga agli infedeli è legalmente consentito, perché indebolisce il nemico. C’è…».
«Che cosa si può fare, Abdallah? Come intervenire?». «Vuoi da me consigli per quelli della sicurezza?». «Io non mi occupo di queste cose, lo sai. Gli apparati di sicurezza fanno il loro mestiere ma non potranno mai arrivare a tutto, controllare tutti. Secondo me il pericolo svanisce da solo se le persone a rischio di una radicalizzazione violenta cambiano direzione di propria iniziativa, non perché costrette da minacce e punizioni. È su questo che ti chiedo cosa si può fare». «Dare lavoro e istruzione. Nessuna delle due cose senza l’altra. Senza lavoro una persona è disperata. Quando uno è disperato può essere pronto ad accettare qualsiasi cosa gli venga offerta». «Non potrebbe allora essere sufficiente garantire a ogni detenuto il ritorno in libertà con un lavoro in mano?». «Ci vuole ma non basta, perché anche senza istruzione tu puoi portare una persona a commettere qualsiasi cosa, semplicemente facendo leva sulla sua ignoranza, compresa quella religiosa. È per questo che l’istruzione in carcere può toccare tanti argomenti, ma non può tralasciare quello religioso. A chi riscopre la propria religione, qualunque essa sia, bisogna dare gli strumenti per una riscoperta sana, che lo faccia vivere meglio non solo con se stesso ma anche con gli altri». «L’islam come partner e risorsa del progetto educativo, non come ostacolo e rischio da neutralizzare. È così?». «Più o meno è quello che penso. Devo andare ora».
(da Leila della Tempesta)