Il contributo della comunità civile ed ecclesiale nella riflessione di Giuseppe Dossetti

Discorso di Roberto Villa a Cefalù 17/12/2016

Non sono un prete e, vi confesso, neppure un uomo dalla forma mentis, diciamo così, particolarmente spirituale.

Sono un laico come voi (e questo in linea generale potrebbe, spero, accattivarmi la vostra attenzione e pazienza), ma non sono neppure un politico né un politologo né un amministratore. Nella vita sono stato solo un padre di famiglia e un uomo di scuola, oltre che un “seguace” ingenuo e affezionato – si badi, non uso volutamente l’accezione di discepolo o di figlio spirituale, che potrebbe adombrare una qualche forma di merito o di virtù – di questo grande protagonista della Repubblica italiana e della chiesa del Novecento. Per quest’ultima un protagonista di rilievo ben più ecumenico, non fosse altro per il ruolo cruciale svolto al concilio Vaticano II e per la lunga testimonianza e disseminazione spirituale operata in Medio Oriente, segnatamente nella chiesa madre di Gerusalemme.

“Seguace”, è questa forse una delle mie atipicità rispetto alla “quarta generazione” di “dossettiani” (uso impropriamente, ma non troppo, il termine della corrente politica democristiana, per indicare una realtà più vasta, un “movimento di opinione” composito, articolato e anche eterogeneo, a volte persino contraddittorio, che ha animato, e per certi versi continua ad animare, il mondo cattolico italiano ben oltre la fuoriuscita di Dossetti da ogni incarico politico ed ecclesiale), un seguace paradossalmente assai poco “spirituale”, proprio del Dossetti più impolitico e spirituale che si possa immaginare: quello della “svolta del ‘68”, quando lasciata la carica di vicario generale dell’arcidiocesi di Bologna, “passò il mare”, nel silenzio e nascondimento della Palestina.

Cosa avrebbe potuto essere il nostro Paese, mi sono sempre chiesto – che in fatto di crisi politica, economica e sociale non passava allora tempi migliori di oggi – e la stessa Chiesa, allora attraversata da una crisi di non minore entità, almeno sul piano vocazionale, come si era chiesto A.C. Jemolo, l’allora più autorevole maestro di diritto pubblico ed ecclesiastico, sul Corriere della Sera, se a quell’ “esule di Gerico” fossero state affidate, come si sarebbe dovuto, le più alte responsabilità? Un seguace, sì, ma lo confesso, ancora oggi venato di nostalgie e rimpianti

Insomma non sono né carne né pesce, perciò veramente sproporzionato al compito che mi è stato assegnato, e me ne scuso. Ciò nondimeno sono molto contento di dovervi adempiere, soprattutto nel frangente storico che il nostro Paese sta attraversando, dalle caratteristiche così direttamente riconducibili all’azione politica, alla testimonianza cristiana e alla riflessione globale di Dossetti, proprio nel ventesimo anniversario della sua morte, tanto da confermarne il significato transtemporale e, come era negli auspici del suo ultimo discorso in Consiglio Comunale a Bologna nel ’58, sul bilancio preventivo, sei mesi prima dell’ordinazione sacerdotale, “un’ efficacia di azioni e di tesi che non si misurava nell’immediatezza”.

Riflessione e azione “circolari”, le sue: dall’inizio alla fine della sua avventura umana e di riformatore cristiano è rimasto infatti, intrinsecamente uomo di Dio e uomo della polis, cittadino, politico e prete, uomo del Vangelo e legislatore, al punto di credere fermamente e con dottrina che il diritto possa essere strumento di cui il Signore (vero “Re della storia”) si serve per creare le cose nell’ordine degli uomini. Riflessione sui due grandi sistemi (realtà organiche) che hanno fatto la storia dell’Occidente negli ultimi due millenni: il sistema ecclesiale e il sistema statuale. Quel “circuito ininterrotto di connessione permanente”, senza il quale non molto si va oltre il velo del Tempio e oltre la prosaicità e ripetitività della storia, tra la parola di Dio e le parole più significative della riflessione umana sull’essere e il suo divenire.

Figura originale nella storia del Novecento italiano, atipica, persino equivoca e illusoria: figura complessa, in larga misura ancora da decifrare, spesso strumentalizzata (così all’inizio del suo percorso, in chiave neointegralistica e poi cattocomunista, come in questa fase postuma come “padre nobile” del cattolicesimo democratico e “profeta del nostro tempo”; definizione pregnante quanto affettuosa che però, lo dice lui stesso pochi anni prima della morte, lo avrebbe inquietato se non infastidito, tanto adottata da molti corìfei dell’impegno sociale e politico a favore del cosiddetto “bene comune”, quanto contraddetta nel perseguimento di metodi e fini che, più che al futuro, sembrano guardare al passato.

Ma chi è stato in realtà Giuseppe Dossetti per la Repubblica italiana? Non genericamente per la politica italiana, ma proprio per quella forma nuova e, bisogna dirlo, inedita in Occidente che è lo Stato italiano uscito dal grande evento globale della Seconda guerra mondiale. Non è superfluo chiederselo, in considerazione della vostra età media, cioè di una generazione che nel ’96 aveva attorno ai vent’anni, e del fatto che la storiografia ufficiale, anche quella di carattere divulgativo, nonostante la sua fortuna critica postuma, fatichi ancora a mettere a fuoco la centralità del suo ruolo nella storia del nostro Paese, soprattutto per non offuscare quella già troppo mitizzata di altri.

Avrete sentito dire fino allo sfinimento che è stato un “padre costituente”, un membro importante di quella Commissione di 75 persone che hanno materialmente scritto la Costituzione del ’48. Potrebbe bastare: cosa di più importante di questo? Eppure non basta. Relativamente al tema del nostro incontro di stasera, bisogna dire che per l’Italia repubblicana, per la nuova configurazione del suo Stato, della sua comunità civile e, al suo interno, anche della comunità ecclesiale e delle comunità religiose (artt. 7 e 8), per il senso nuovo da riconoscere alla nozione di popolo (il popolo sovrano, artt. 1, 2 e 3), Dossetti è stato una figura cruciale, così all’inizio come alla fine, quando si è concretamente trattato di farlo e poi di difenderlo questo Stato, con innegabili effetti sul sistema politico in senso stretto anche di questi due ultimi decenni e con indicazioni teologiche sul rapporto fra città di Dio e città dell’uomo che oggi, più che in altri momenti dell’età postconciliare, sembrano trovare nella chiesa e nelle sue gerarchie un certo grado di fertilità.

Un cristiano, di origini borghesi e di solido benessere economico, cresciuto in terra reggiana dove, prima e dopo il fascismo, questo status sociale e di censo è solo motivo di svantaggio, se non nell’agio della vita domestica; in una famiglia sabauda e liberale, con a capo del letto non il crocefisso, ma un grande ritratto di Garibaldi (“il virus già inoculato in me, fin dalla primissima infanzia, di un mondo più vasto, di una solidarietà civile, di ricordi di un’età risorgimentale, di una vita politica che allora io non potevo naturalmente definire”). In una terra di aspri, serrati confronti, non nei salotti delle élites, ma nelle piazze di paese e nelle aie delle case coloniche, fino alla Marcia su Roma, tra le tre grandi culture o ideologie del XIX secolo: il liberalismo, il popolarismo cattolico, il socialismo massimalista o rivoluzionario. La terra dove l’on. Prampolini la notte del 24 dicembre del 1899 sul sagrato del duomo, mentre dentro il vescovo celebrava la messa, tenne a operai e contadini la laica “predica di Natale” in cui il vero cristianesimo era additato come il regno dei lavoratori e del socialismo. Il paese di origine, Cavriago che, per l’esperienza delle sue cooperative sociali, vent’anni dopo sarà additato da Lenin come esempio per la rivoluzione economica bolscevica.

Questo fa la differenza, rispetto a tutti gli intellettuali cattolici della sua epoca, lombardi, piemontesi, trentini, toscani, il vostro La Pira compreso, che pure gli sarà fraterno amico e persino inesausto auspice di una sua futura elevazione al soglio di Pietro. Non, per la propria fede, la necessità di strutturare un pensiero sociale contrastante un’altra dottrina o ideologia, ma proprio il “genius loci, la farina di cui è impastato dalle rasdore il pane del popolo di quella terra dove, dice, fa l’università della vita: “una grande solidarietà senza confini”, che è un dato umano per così dire pre-cristiano, universale, oggi diremmo laico, un senso comunitario di comprensione, di convivialità, di compartecipazione al dolore degli altri, soprattutto dei miseri e dei poveri, perché la loro è la condizione umana naturale, non modificata da alcun privilegio terreno, per così dire voluta da Dio. Questo ragazzo alla fine del liceo viene catapultato, per chiaro ingegno, all’Università Cattolica di Milano, il cuore del pensatoio e dell’associazionismo cattolico italiano.

Già tra il ’40 e il ’42 in Cattolica, dove senza il placet di padre Gemelli grande consigliere di Pio XII non si può fare nulla, ben prima di ogni altro in Italia è l’animatore di un gruppo di studio clandestino in vista di un nuovo assetto statuale postfascista. Poi tutto precipita: il 25 luglio la caduta del fascismo, l’8 settembre l’armistizio con gli Alleati e l’occupazione nazista. Mentre De Gasperi a Roma diffonde tra il residuo notabilato popolare le “Idee ricostruttive della DC”, Dossetti sfollato nel suo paesello d’origine, tra gli amici del cattolicesimo reggiano e delle province limitrofe, si dichiara contrario ad un nuovo partito cattolico, sia perché – dice – non avrebbe giovato alla Chiesa sia perché il cattolicesimo politico fino ad allora si era dimostrato conservatore di un mondo che ora, con l’evento catastrofico della guerra, stava ovunque andando a pezzi, e contrario in quanto cristiano alla resistenza armata che al Nord si andava diffondendo, a prevalente direzione comunista. Partecipa comunque intensamente all’organizzazione di tutta l’attività assistenziale alla popolazione civile, indipendentemente dalle posizioni politiche e dal grado di coinvolgimento con il precedente regime, esclusi i collaborazionisti della Repubblica di Salò.

A metà ’44 l’intero gruppo dirigente comunista della Resistenza reggiana viene catturato e passato per le armi: Dossetti si ritrova dall’oggi al domani unanimemente eletto presidente del CLN. L’unico presidente cattolico di CLN in tutta l’Alta Italia occupata. E’ qui che nasce l’equivoco, assolutamente infondato, di un certo grado di filocomunismo di Dossetti e della sinistra democristiana e postdemocristiana che da lui prese il nome e a lui, pur tra molte infedeltà, travisamenti e contraddizioni, si è voluta ispirare fino alla stagione dell’Ulivo e financo ai giorni nostri.

Il mito fondativo della Costituzione nata dalla Resistenza è ancora oggi pressoché indiscutibile nel nostro Paese. Rivangarlo, anche con le migliori intenzioni, significa toccare ancora nervi scoperti di identità personali e comunitarie, passioni, drammi familiari, conti sospesi con la storia che continuano ad impedire un dialogo e un confronto utile per il futuro della comunità civile. E’ certo però che si trattò di una storia terribile, di un confronto asprissimo e violento: alle riunioni del CLN reggiano il presidente Dossetti partecipa scortato dal fratello Ermanno, ufficiale nella guerra d’Albania, che sul tavolo spianava la rivoltella con il colpo in canna. Il 2 giugno il drappello partigiano che per primo occupa la piazza centrale di Reggio è quello cattolico delle Fiamme Verdi, al centro del quale Ermanno ostenta – in una posa alla Rambo ante litteram – una grossa mitragliatrice a nastro: gli ultimi tedeschi e repubblichini erano già fuggiti nella notte, ma a buon intenditore poche parole. Gli anni successivi, fino al ’48, in quelle terre sono gli anni del cosiddetto “triangolo della morte”: omicidi, rapimenti, persone scomparse, violenze di ogni tipo, anche a danno di preti e persone che con il fascismo non avevano avuto niente a che fare. Al punto che Dossetti dovrà intervenire sul giornale cattolico locale dicendo: “Avete bisogno di un responsabile? Il responsabile sono io, sapete dove abito, prendete me!”. Altro che filocomunismo o cattocomunismo!

La Resistenza, comunque, si doveva fare, e a quel movimento di ribellione popolare al regime fascista si doveva partecipare per legittimare la propria partecipazione all’edificazione del nuovo Stato che doveva nascere e che altrimenti sarebbe stato fatto, con occhio rivolto al passato, dai soliti Croce, Orlando e Nitti, gli uomini dell’età giolittiana che avevano lasciato andare il Paese in bocca ai cannoni della Grande Guerra e in braccio alle menzogne di Mussolini. Da quel liberalismo oligarchico e liberismo economico che – lo avete visto bene anche voi più giovani – era ben altro che tramontato ancora alla fine del 900. Liberalismo cui non sfuggivano, nell’impianto teorico del proprio pensiero, neppure i popolari e i comunisti, come ha ben dimostrato, quasi 70 anni dopo, la recente parabola del primo Presidente della Repubblica ex comunista.

Ma la Repubblica dei CLN (oggi diremmo dei partiti) no! Questo giovane sconosciuto, catapultato nei due mesi successivi alla vicesegreteria politica nazionale della DC, a fianco di De Gasperi, alla fine di agosto a Milano, al Convegno Nazionale del CLNAI, si alza in piedi davanti a 3500 delegati e ai più autorevoli esponenti del comunismo, del socialismo e dell’azionismo italiano, per opporsi al progetto di “gabellare una specie di Costituente senza elezioni da consegnare in mano al PCI”. Una Repubblica doveva essere, invece, né classista (di partito) né laicista (liberale) né clericale, ma una Repubblica del popolo, di tutto il popolo, rappresentato in tutti i suoi ordini. “Questa mia battaglia per la liquidazione del CLN è continuata fino alla fine. Sono stato io che ho steso il testo finale, dopo il 2 giugno ’46, del comunicato di scioglimento che il Comitato centrale non voleva decidersi ad emanare”. I CLN, che pure avevano fin lì svolto il ruolo positivo che nessuno gli negava, erano organi caduchi di una “democrazia rudimentale”, da sostituire con organi di “democrazia genuina” che, come tale (sarà uno dei suoi rimproveri ricorrenti ai governi De Gasperi) non è garantita dall’esistenza e neppure dalla legittimità elettorale, per sé sola, del Governo.

Una Repubblica, nella forma e nella sostanza incerta fin dall’inizio, anzi nient’affatto scontata. “Sparsi il seme repubblicano – ha più volte rivendicato con orgoglio – e portai i voti per la Repubblica al I Congresso Nazionale della DC nell’aprile del ‘46”. Ciononostante, su mozione della Presidenza, quel congresso votò un odg (la cosiddetta opzione agnostica o agnosticismo istituzionale, quasi che l’assetto istituzionale fosse indifferente alla lotta politica) nel quale gli elettori venivano lasciati liberi di scegliere secondo coscienza. “La Repubblica – dirà subito dopo il referendum – non ha certamente vinto il 2 giugno, ma al Congresso della DC”.

Ma quale Repubblica? Perché anche questo non era scontato. Per Dossetti, che nel febbraio precedente aveva già presentato per la prima volta le dimissioni (respinte) da vicesegretario a causa della sottrazione, a suo dire operata da De Gasperi in Consiglio dei Ministri, della scelta istituzionale all’Assemblea Costituente (“perché il referendum potrà essere uno strumento efficace di controllo solo quando al Paese sarà effettivamente garantita una vita democratica”), il discrimine è “il vero concetto di democrazia” che, a differenza di quello puramente formale, nominalistico, dello Stato liberale prefascista, “comporta l’edificazione di una struttura politica e sociale che garantisca concretamente l’espansione spirituale e fisica di ognuno, contro posizioni di privilegio precostituite” (quello che sarà il contenuto dell’art. 3). Un “ordine nuovo”, una “casa nuova”, nella continuità monarchica era impossibile. A differenza di ogni altro (eccezion fatta per Gronchi, Scelba e Zoli che però dentro il partito non riuscirono a creare consenso), comprese le gerarchie ecclesiastiche, Dossetti capisce subito che il problema della forma istituzionale è un problema di sostanza (oggi direbbe che non si può cambiare la II parte della Costituzione, pretendendo che ciò non influisca sulla prima).

Uno Stato nuovo, quello da lui e dai suoi uomini (Mortati e Fanfani) disegnato nelle tre Sottocommissioni che, pur animato dal confronto di una pluralità di forze politiche anche tra loro antagoniste, mirasse a tutelare veramente la “persona”/cittadino e le comunità intermedie che egli costituisce ad ampliamento ed integrazione della propria dignità, come fine ultimo del proprio ordinamento, e impedisse l’occupazione “imperialistica” degli organi istituzionali a fini di parte.

Per fare cosa? Questa è la particolarità che rende quella Costituzione veramente la “più bella del mondo”: “Quando sono entrato in politica ho cercato la strada di una democrazia reale, sostanziale, non di quella liberaldemocrazia di cui tutti, sembra, oggi, si son fatti seguaci e realizzatori: con un nominalismo sempre più corroso di ogni sostanza fattiva, operante, concreta, reale e schietta, non ingannevole. Ho cercato la via di una democrazia reale, sostanziale, non nominalistica: che voleva anzitutto cercare di mobilitare le energie profonde del nostro popolo, e cercare di indirizzarle in modo consapevole verso uno sviluppo democratico sostanziale, cioè in larga misura favorente non solo una certa eguaglianza, una certa solidarietà, ma favorente soprattutto il popolo: non nel senso di oggetto dell’opera politica, ma di soggetto consapevole dell’azione politica, avviato con una consapevole educazione alla vita politica e alla soluzione dei grandi problemi nazionali”.

Una Costituzione impastata appunto nella madia di paese, con la farina del pane e della pasta sfoglia. “Come l’abbiamo fatta? Con una certa intelligenza, con spirito di rinnovamento, di modernità” – dirà con orgoglio ai suoi ex compagni di scuola, di parrocchia, di resistenza, quando il suo paese, appena un anno prima della caduta del muro di Berlino, gli consegnerà la cittadinanza onoraria – “ma certo adesso si impone un rinnovamento profondo e urgentissimo, se ancora possibile. Però dico subito che quasi certamente in questo momento non è neanche il problema più importante questo. Il problema più importante mi pare quello del rinnovamento etico dell’uomo, del senso comunitario, del senso della comunità. L’impegno di solidarietà, la lealtà assoluta reciproca, non la doppia coscienza di appartenere al contempo a comunità diverse, l’esercizio di funzioni esercitate veramente con distacco personale. Questo rinnovamento dell’uomo è ancora più urgente delle riforme istituzionali e condizionerà le riforme stesse. Senza di esso le riforme che si auspicano resteranno lettera morta, provocherebbero inevitabilmente un rinnovamento istituzionale apparente e persino ipocrita”.

Dov’è in questa ricerca, in questo progetto di Stato, in Dossetti stesso il limite, il confine, se c’è, tra utopia e politica realistica, del possibile o realpolitik, come la si voglia chiamare? L’interpretazione comune lo identifica come esempio di leadership carismatica, astratta, venata di istanze spiritualistiche, comunque intransigente, intrisa di elementi valoriali irrinunciabili, in contrasto o in irrimediabile dialettica, nel caso migliore complementare se resta però nel suo ambito, con quella invece concreta, realistica, dialogica, fattiva, disposta al compromesso, come si dice oggi allo “sporcarsi le mani”, allora a “tirare il carro”, di De Gasperi.

Questa è una mitologia, Dossetti è una medaglia a due facce, in tutte le fasi e gli status del suo impegno civile o ecclesiale che sia: c’è in lui anche e non meno l’altra “faccia”, quella dell’azione fattiva, della tecnicità, dell’efficienza, della “battaglia nei campi”, della politica politicante.

Dossetti fa la Resistenza, fa la Repubblica, fa la Costituzione, fa la DC, il suo statuto, la sua organizzazione di massa, la sua nuova classe dirigente, la sua politica economica, le riforme della stagione centrista (la questione meridionale non sarà più affrontata da nessun altro con la stessa organicità e concretezza di provvedimenti), la riforma agraria, l’ente Sila e gli altri delle omologhe zone depresse del nostro Paese, la riforma delle imprese consortili, la riforma dell’industria elettrica, la vitalizzazione delle sezioni anche qui in Sicilia, l’organizzazione dei gruppi giovanili, lo sport, persino la difesa e le commesse militari. In una parola, nei suoi brevi sette anni di impegno politico è il partito, elemento coessenziale per tutti i dirigenti e gli iscritti della sua identità, insieme a De Gasperi. Tanto che, alla morte dello statista trentino, per un decennio esso sarà guidato da uomini che derivano direttamente da lui e quando la Chiesa di Bologna gli chiederà di fare il candidato Sindaco, il partito glielo consentirà senza obiezioni, nonostante la sua pretesa di presentarsi come indipendente e con una procedura inedita, le elezioni primarie. Perdente, farà per due anni il capogruppo in Consiglio Comunale, occupandosi con lo stesso impegno di questioni internazionali come i fatti di Budapest e del Canale di Suez, come dei bilanci preventivi e consuntivi, e persino della centrale del latte, dell’autostrada del sole e della nettezza urbana.

Forse il tanto abusato e assolutorio concetto di utopia, che Platone si guardò bene di attribuire al suo modello di ”Repubblica”, ideato e scritto qui in terra di Sicilia, è solo un pietoso velo che l’uomo ricorrentemente stende a coprire i propri limiti. Alla sua morte il Sole24Ore, organo di quell’oligarchia che tanto lo aveva avversato, il cosiddetto “quarto partito”, scriverà: “Un po’ più di Dossetti e un po’ meno di realpolitik ci avrebbero riservato anni migliori di quelli che abbiamo vissuto”.

Alla Chiesa di Bologna nell’ 87, alle soglie della fine di un secolo e delle sue ideologie, in presenza del suo Vescovo e di don Giussani, allora alfiere di un rinnovato e vasto impegno sociale e politico dei cattolici, aveva detto (proprio nel testo che don Mogavero vi ha offerto, che Dossetti intitolò non casualmente “Per la vita della città”, e che andrebbe letto, sempre per quell’impianto circolare cui si accennava, in continuità stretta con l’ultimo suo discorso da vicesegretario della DC nel ’51, “Funzioni e ordinamento dello Stato moderno”, il suo vero testamento politico nel senso più proprio) che “i cristiani, dopo le non lusinghiere prove date di sé in passato, debbono astenersi da un proprio progetto e riconoscere di non avere nessun titolo che li abiliti più di altri a costruire dottrine o a tentare di realizzare un qualunque progetto sociale”. Diceva che il mondo (la città) non è un mondo di illusioni ma di realtà complesse, plurali, in cui occorre impegnarsi certo, ma sapendo che i cristiani in quanto cristiani non hanno soluzioni, e che, insieme al diritto dei credenti di professare la propria fede (tutte le fedi, come dall’art. 8, che è un inno alla libertà di coscienza e perciò al contempo alle libertà religiose ma anche all’assoluta laicità dello Stato rispetto ad esse), “c’è anche il diritto del non credente di sentirsi esporre il messaggio cristiano puro e integro, non per quello che vorrebbe apparire, attraverso impraticabili concordismi (facendo appello a mediazioni d’altra fonte), ma per quello che esso è, senza negare valore al confronto, anzi cercandolo con passione infinita”. La “Nuova Gerusalemme”, la città celeste che il cristiano attende, e che sulla terra cercherà di prefigurare, pur non identificandosi mai con nessuna forma della socialità umana, è per definizione di “lassù”, ma anche là conserverà il carattere precipuo della “città” terrena, nel senso che della città avrà tutto il significato possibile per eminenza positiva: cioè lo stare insieme, il convivio soave ed eterno con tutti i figli di Dio di tutti i tempi.

Ritornerà qualche anno dopo, quando nel disastro di Tangentopoli sarà per lui, come per tutti, ormai evidente che non si era posta mano alcuna a quel rinnovamento, se non dell’uomo, almeno della classe dirigente, con i giovani delle famiglie a lui più vicine sul tema del “soggetto etico”, il cui rinnovamento riteneva urgente nel discorso di Cavriago, in rapporto alla politica. Un tema, si badi, da non leggere in chiave religiosa o spiritualistica.

Il soggetto etico, rispetto alla politica, si allarga, si espande, aumentano i diritti e i doveri. In una comunità più vasta, più articolata, si moltiplicano le relazioni e i doveri del cittadino. Sapere chi è oggi il cittadino è molto difficile, perché siamo in un momento di profonda crisi. Quale sarà il nostro Stato? Tutti i concetti di Stato, di nazione, di federazione di stati, di stato soprannazionale sono in continuo movimento, specialmente in questa nostra Europa (che cerca se stessa e non si trova, non certo solo con il trattato di Maastricht). Nonostante tutta questa dinamica in corso, il soggetto etico resta uno solo e unitario, individuale (il cittadino) e collettivo (il popolo) e non si può tagliargli delle fette di moralità, come sta succedendo che la sfera più emergente, più messa in rilevanza da tutti e rispetto a tutti, è la sfera della morale diciamo economico-finanziaria. Questa moralità del cittadino deve essere rapportata alla Costituzione, non facilmente modificabile per i diritti e i doveri in tutto questo sviluppo e intrigo di spinte e controspinte. Che la Costituzione potesse essere un punto di riferimento per questo è stato mai detto da qualcuno? Se facevano per così dire cilecca i comandamenti di Dio, si poteva almeno fare riferimento alla costituzione…non è avvenuto. E in questo ritengo che noi cristiani abbiamo una responsabilità tutta particolare. Che consapevolezza abbiamo avuto di una eticità statuale? Molto manchevole, perché c’è stato fin da principio un conflitto…cittadini sì, ma con riserva di riconoscimento di diritti da parte di altri e con riserva nostra di adempimento di doveri da parte nostra. Una doppia coscienza ”.

Un ragazzo gli pose una domanda provocatoria, che io credo sia stata per lui determinante per il suo ultimo e inopinato, per tanti versi ancora una volta incompreso e ostacolato, impegno politico diretto, quello della promozione dei Comitati per la difesa della Costituzione del 93-94: “Lei che ha tanto fatto nell’ambito liturgico e biblico, ha compiuto uno sforzo analogo in ordine a questi problemi? “No – fu la risposta rammaricata – ma ora dobbiamo pensarci e sto veramente pensandoci a questo grande disastro. Sento che dobbiamo provvedere un poco. Bisogna ricominciare. Però (reagisce subito alla provocazione, come a dire che a suo tempo il suo contributo l’aveva dato), a parte me che ormai sono vecchio, anche tra i giovani, chi pensa? Bisogna che voi vi mettiate sotto con il pensiero e con l’azione. E’ problema vostro, che dovrete risolvere voi. Non vi lasciamo nessuna eredità, solo qualche principio che dovrete voi riapprofondire ed esplicare”. Ma poi, come spesso capita, i giovani anche fra i suoi latitarono e toccò di nuovo a lui.

E’ così fino alla fine, proprio allo stremo, su una Fiat 127, fino a Napoli, Salerno, Bari, in ogni città e in ogni più piccola frazione: “Ora bisogna organizzarsi, in previsione di ben altri referendum”, mi disse il 18 aprile 93, per la dedicazione dell’oratorio affidato a lui e alla sua comunità religiosa dalla Chiesa di Bologna, come diaconia di preghiera e di memoria per le vittime di quella strage e della violenza politica di ogni tempo. Era il giorno del referendum promosso da Mario Segni, che vide la vittoria del sistema elettorale maggioritario al Senato. Un uso improprio del referendum, avrebbe spiegato qualche mese dopo, all’interno di una ingannevole commistione populistica di potere esecutivo e di rappresentanza politica del capo del governo, sempre più orientato verso forme di “premierato assoluto” legittimato solo dalla mitologia allora pressoché assoluta del “Sindaco d’Italia”. Orientamento progressivo verso un presidenzialismo all’italiana per investitura popolare di un leader al vertice del potere esecutivo, che prescinda da ogni reale contrappeso e controllo per tutto il periodo del suo mandato (monarchia elettiva).

Il senso dello Stato, dunque, da recuperare. Da qui occorre ricominciare anzitutto, con un’azione rieducativa del pensiero e dei comportamenti pre-politici e politici in senso stretto, oltre che con azioni concretamente creative di nuovi strumenti tecnici di dislocazione del potere, di espressione della volontà popolare e della sua rappresentanza.

A monte una considerazione pregiuridica, preliminare e suprema: la Costituzione del 48 è un “patto”, non un contratto come tutti gli altri. Una convenzione di diritto pubblico corrispondente alla sigla di un grande momento storico di “comune sentire”, di una società che intuisce come non mai, dopo l’immane tragedia bellica subita, di essere una “comunità di destino”. Un patto necessario alla propria sopravvivenza, che coinvolge non una parità di partenza dei soggetti contraenti, ma soggetti di condizione meno favorita e più favorita e prevede che i meno favoriti aspirino e realizzino, attraverso quel patto, un’elevazione o almeno una possibilità di elevazione della propria condizione, voluta anche dagli altri. Non solo un patto politico, ma anche sociale. Le controprestazioni non sono equivalenti, ma dispari e si vuole tendere a pareggiarle. La Costituzione dunque, e perciò lo Stato di cui è il fondamento e la giustificazione, è un elemento trainante e trascendente i soggetti contraenti, inglobante, amalgamante e unificante i nove decimi del nostro popolo, sintesi di molti sacrifici e varie culture, dotato di facoltà plasmatrici, che fino ad ora non si sono riprodotte.

Questo Patto nazionale come realtà precedente lo Stato, questa costituzione originaria (che è il solo possibile strumento di mediazione delle forze sociali) gli dà una natura essenzialmente finalistica: tendere con tutte le proprie forze alla democrazia reale, non utopia, ma concreto scopo unitario di tutti gli interessi concorrenti. Una Costituzione formale che divida un popolo, o semplicemente regoli i conflitti sociali, stabilendo chi vince e chi perde come una finale di un torneo di calcio, può essere solo una grande disgrazia. Uno Stato che si accontentasse semplicemente di regolare i conflitti come un notaio ottocentesco era fallito, sepolto dalla storia già settant’anni fa, immaginiamoci oggi!

Tutti, o quasi, oggi muovono le loro analisi dai nuovi scenari, dicono, apertisi dopo l’elezione di Trump in America. Comprensibile, anche se meglio sarebbe per noi Europei prenderla più da vicino, dalla Brexit. Ma anche i più spaventati, sembrano già rassicurati dal dilazionamento (ormai chiaramente quinquennale) delle catastrofiche conseguenze che avrebbe dovuto avere.

Da questi scenari muove uno degli elementi fondamentali dell’attuale, ormai di lunga durata, operazione di sistematica diseducazione della coscienza costituzionale collettiva: l’equivoco ingenerato sul rapporto tra popolo (sovranità popolare) e populismo. Non è populismo il responso delle urne, secondo i regolari processi di formazione della delega politica, a qualsiasi livello previsti dalla Costituzione e debitamente osservati. Sarà voto di pancia, di protesta, di frustrazione della maggioranza che, a causa di sistemi elettorali imperfetti, è stata troppo a lungo costretta al ruolo di minoranza. Il responso delle urne, che piaccia o no, che ripugni o meno a sensibilità di fasce sociali più o meno vaste, a principi valoriali, interessi di gruppo o classi sociali, è comunque l’effetto della democrazia. Altrimenti ha ragione Scalfari, cioè l’ 800 liberale appena ammodernato dal vento resistenziale dell’azionismo: la democrazia è in realtà oligarchia (governo degli illuminati, dei migliori, dei virtuosi, degli istruiti, dei tecnici) che governa le grandi masse, per loro natura inidonee a farlo. Il populismo invece, dai tempi di Napoleone III re dei Francesi, sono le procedure politiche ed elettorali adottate per manipolare l’orientamento degli elettori: in particolare le forme di consenso più o meno plebiscitarie, voti di generica approvazione di una linea politica, deleghe in bianco in nome della governabilità (“notte della democrazia”, dice la sentinella dossettiana).

Da dove viene questa ossessione trasversale di revisionismo istituzionale? Questa onda lunga che da vent’anni coinvolge tutte le forze politiche italiane, concentrandone ogni energia, distorta da ogni utile risoluzione dei problemi più veri, concreti e urgenti del nostro Paese? Per Dossetti si tratta di una “mitologia sostitutiva” che cerca, dopo il grande schiaffo subito dalla classe dirigente a causa di Tangentopoli, di trasferire pretestuosamente la propria incapacità di governare ad una supposta impossibilità di governare, cerca cioè di trasferire la propria inadeguatezza a quella dell’ordinamento statuale.

L’ossessione del revisionismo costituzionale accomuna tutte le forze politiche non solo negli scopi ultimi dichiarati (efficacia-efficienza, snellimento, economicità, semplificazione), ma anche nell’individuazione degli stessi istituti giuridici da riformare, con una mancanza di creatività politica che impressiona (regionalismo-accentramento, prevalenza certa e immediata della forza maggioritaria e del proprio leader, compressione delle garanzie delle minoranze, che poi minoranze di fatto non sono).

Viene da uno stato emotivo. E’ una problematica del profondo e generazionale di una classe dirigente in irreversibile crisi di identità funzionale e di fiducia in se stessa. Oppressa dalla coscienza del proprio fallimento storico nell’affrontare i problemi emergenti del proprio tempo con gli strumenti politici ordinari, dal discredito piovutole addosso dall’opinione pubblica, non crede più nei meccanismi ordinari della democrazia rappresentativa. Non crede più che essa possa essere realmente propositiva, di indirizzo, realmente incidente in modo progressivo sul sistema sociale. Anche in questo caso, con una sostituzione mitologica di causa-effetto: lo svuotamento della partecipazione politica(della cosiddetta democrazia partecipativa) sarebbe la causa della rcrisi della rappresentatività. E perché non il contrario?

Crede che la poltitica, nel caso migliore, possa esprimere solo una funzione passiva, di resistenza, di contenimento della forza delle tecnocrazie, già prevalente nei fatti secondo loro, della finanza, del grande onnicomprensivo mostro della globalizzazione, irrimediabilmente influente sull’opinione pubblica, sulla coscienza dei cittadini, sulla volontà popolare, come sui tradizionali centri di potere.

Ma alla fin fine, dicendoci che gli strumenti tradizionali della democrazia rappresentativa sono già nei fatti ridotti, invece che pensare a qualcosa che ne possa integrare modernamente il potere e le capacità di influenza sugli altri poteri, perseguono l’obiettivo più ampio di diminuire gradualmente le aspettative del popolo su di essa. Per trasferirle su vaghe, astratte promesse di virtuosa, oligarchica governance. L’obiettivo è culturale: creare l’idea di uno spartiacque storico. Una soluzione di continuità nella storia repubblicana, per creare un nuovo “sistema democratico” dove gli elementi fondanti e i simboli antichi sono mantenuti, ma ridimensionati, e dove l’idea stessa di Costituzione viene omologata a quella di legge ordinaria.

Perciò, sottolinea Dossetti, occorre mantenere la vigilanza, finché c’è tempo per reagire, come la figura della “sentinella”, presa in prestito da Isaia, 21 che, se non sa quanto durerà la “notte della democrazia” perché non è un profeta, ma solo una semplice sentinella (“Sentinella, quanto resta della notte? La sentinella risponde: Viene il mattino, e poi anche la notte, se volete domandare, domandate”), almeno può segnalarci i pericoli della notte e l’avvicinarsi dei predoni della democrazia. Che, non si commetta un’altra volta l’errore di dieci anni fa, appena ripresi dallo choc, dalla sorpresa di questa battuta d’arresto, si ripresenteranno di nuovo sotto le mura della città, più motivati e attrezzati di prima.

Se è vero che lo Stato moderno è in crisi da lungo tempo ed annaspa di fronte ai mutamenti sociali in corso, il presupposto della discontinuità storica, comune a tutto questo revisionismo istituzionale (e di quello che potrebbe venire prossimamente), è falso. Non si può e non si deve in alcun modo parlare di II^ Repubblica. Questa è solo avventata superficialità giornalistica, disorientante e ingannevole. Essa è priva di ogni fondamento storico (assenza di evento globale), giuridico (la sostituzione di una legge elettorale non importa discontinuità costituzionale che possa delineare la necessità di un nuovo patto fondamentale degli Italiani come visione organica della politica e della nostra coscienza civile), politico (Tangentopoli è un mutamento apparente e non sostanziale del personale politico, non della partitocrazia: resta la stessa lottizzazione dei poteri, le stesse procedure verticistiche), esperienziale (che potrebbe essere bastevole per il cambiamento; ma la maggior parte del nostro popolo nella vita quotidiana, invece, esperimenta nulla di nuovo, ma solo il vecchio che tarda a morire).

La nostra dunque è e deve restare una democrazia reale, parlamentare, a sovranità popolare che si esprime attraverso rappresentanze elettive, che suppone il principio elettorale proporzionale, esclude la commistione di sistemi elettorali diversi; perciò la seconda camera deve restare comunque elettiva, anche se con compiti limitati o differenziati, soprattutto se conserva insieme alla prima camera compiti paritari di indirizzo generale costituzionali, comunitari ed internazionali; che comporta la netta separazione dei poteri e il loro rigoroso equilibrio, il reciproco controllo; l’abrogazione di ogni articolo della sua Costituzione deve avvenire attraverso il procedimento dell’ art. 138, ulteriormente rafforzato ai due terzi dei voti in seconda lettura, che è solo oppositivo o abrogativo, non confermativo di proposte organiche o di pacchetti di proposte, non rimesso all’iniziativa del governo, solo su quesiti semplici, unitari, specifici, espliciti, non complessi e disomogenei, non su quello implicito di una generale approvazione della politica del Governo, che si trasformerebbe in una forma di plebiscito; inammissibile è il cambiamento di parti organiche di essa, se non da parte di un’assemblea programmaticamente eletta a sistema proporzionale e per quell’unico scopo. Questo è l’inequivocabile lascito costituzionale di Giuseppe Dossetti.

Più in generale e in funzione di modifiche e aggiornamenti possibili, auspicabili, espansivi della democrazia: il problema, la crisi dello stato moderno non è quello della stabilità del governo, della lentezza del parlamento, della inadeguatezza delle leggi elettorali, ma è crisi dei sistemi di contrappeso dei poteri che, secondo i vizi della più antica trasformistica partitocrazia, fanno solo opera di regolazione degli scontri sociali (democrazia formale). Lo stato moderno parlamentare manca di pubblicità responsabile verso le masse popolari Il problema non è far funzionare meglio l’ordinamento statale, ma favorire la partecipazione popolare che responsabilmente conferisca o ritiri la rappresentanza ai propri delegati.

Che fare allora? Meglio applicare la Costituzione vigente a problemi congiunturali: economia, disoccupazione, pensioni, degrado urbano, infrastrutture, saccheggio ecologico, estremismi religiosi e terrorismo, profughi e cominciare a pensare a strutture di effettiva dislocazione, anche territoriale, della partecipazione, del controllo e della delega.

Un esempio per tutti: la questione dei Comuni e delle Province, così disastrosamente avviata e lasciata ora sospesa dal precedente Governo, e dal fallimento della Riforma, anch’essa a colpi di maggioranza, del Titolo V. I Comuni stanno attraversando difficoltà economiche a causa delle sempre più scarse risorse e difficoltà enormi nella gestione del personale che deve erogare servizi primari alla popolazione, soprattutto nei paesi di piccole dimensione, tra i 7500e i 10.000 abitanti, proprio quelli in cui primariamente lo Stato è identificato nell’istituzione municipale. Tutte le riforme fin qui tentate invece che coordinare le forze e le risorse sul territorio, le parcellizzano e le dividono. E’ urgente avviare una riflessione organica sul sistema organizzativo complessivo delle strutture degli enti territoriali (Comuni, Province, Regioni) che già i costituenti nel 48 pensavano necessaria – immaginiamoci oggi! – anche solo per garantire una corretta differenziazione del sistema elettorale del Senato, come camera delle autonomie. Per la centralità del Comune all’interno della nostra carta costituzionale e l’attualità di essa nella risposta ai problemi emergenti dal mutamento della struttura sociale delle comunità territoriali avvenuto negli ultimi decenni – da lì nasce infatti la mitologia del “sindaco d’Italia – è bene ripartire da questo elemento, lasciando stare l’architettura del sistema di governo centrale, che mantiene comunque un proprio equilibrio, e verificare la possibilità di una diversa articolazione degli stessi, per dimensioni e competenze; successivamente si potrà anche rivedere il sistema degli organi superiori, province e regioni, altro che mitiche “aree vaste”.

Come è potuta succedere in questi vent’anni tanta confusione di piani e approssimazione di idee? La fine del comunismo, la crisi irreversibile della sinistra storica, l’afasia del pensiero cosiddetto laico, hanno determinato, seppure surrettiziamente un oggettivo ritorno della “questione cattolica”, ricorrente nella storia del nostro Paese, con una progressiva rioccupazione di spazi di potere da parte di personale cattolico, tanto da poter dire che forse ancora oggi il problema italiano è quello della chiesa italiana e del grado di coscienza che essa ha delle trasformazioni antropologiche, culturali sociali ed economiche. Forse non può non essere così e forse bisogna prendere atto del perdurante compito storico del cristianesimo nel nostro Paese.

Una sorta di tela di Penelope che i diversi periodi storici fanno e disfano a seconda delle contingenze, ma che in ogni caso si coniuga sui due grandi temi dell’influenza ecclesiale sulle cose temporali e del grado di laicità non solo della “civitas humana”, ma anche e soprattutto della coscienza dei cittadini cattolici rispetto ad ogni forma di commistione fra sacro e profano nell’esercizio del potere. Questo “terribile mistero, di guidare altri uomini, di avere il potere: il problema è essenzialmente qui!”, sottolineava Dossetti, “qualcosa che esige virtù straordinarie” che ancora non si palesano.

Mentre ancora riemergono, come si è detto per Napolitano tardo esponente di quell’altra grande “chiesa” che è stato il PCI, radici ideologiche e fideistiche innegabilmente di derivazione democristiana. Può succedere, quando si è mossi da una prevalente “missione a fare” e da una volitività attivistica che è ancora una cifra rilevante dell’associazionismo trasferito nell’agone politico dalla prevalente convinzione, per la stessa propria buona fede, di essere al “servizio del Paese” per un ipotetico “bene comune politico”, piuttosto che da un’intuizione profonda dell’attualità storica e da una genialità creativa (non solo una rimasticatura di dottrine e progetti nati altrove).

L’insegnamento di tutta la singolare vicenda umana, spirituale e politica di Dossetti per noi laici, la cui vita si consuma comunque prevalentemente nel “mondo” e nei suoi affanni, sembra essere uno solo: con la fuoriuscita di Dossetti dalla DC, prima che fosse troppo tardi per l’unità del partito a causa del grande seguito delle sue idee, ha fine ogni tentativo di rinnovamento dell’ideologia politica cattolica: “Un’assenza, a un certo punto, di una continuità di pensiero: si è come cessato dal pensare in grande, con idee forti, non solo nell’ambito del cristianesimo, ma anche nelle scienze umane necessarie per fare la vita politica, per risolvere i problemi politici. Qual è il nuovo pensiero, la nuova revisione di quello che potevano essere le idee economico-sociali del mio tempo?”.

Ci sono dei momenti in cui è necessario credere che è dalle idee che occorre ripartire: “Viviamo in una crisi epocale. Io credo che non siamo ancora al fondo, neppure alla metà di questa crisi. Non vedo nascere un pensiero nuovo né da parte laica né da parte cristiana. Siamo tutti immobili, fissi su un presente che si cerca di rabberciare in qualche maniera. Non è catastrofica questa visione, è realistica; non è pessimista, perché io so che le sorti di tutti sono nelle mani di Dio. Aspettatevi delle sorprese ancora più grosse, attrezzatevi per tale situazione. Convocate delle giovani menti che siano predisposte per questo e che abbiano, oltre che l’intelligenza, il cuore (lo spirito cristiano)”.

Intanto, in attesa di un pensiero veramente nuovo, a presidio di una democrazia sempre perfettibile ma che non ha esaurito la propria funzione, valga la sua ultima esortazione ai giovani: “La Costituzione fatevela amica e compagna di strada. Essa può garantivi effettivamente tutti i diritti e tutte le libertà a cui potete ragionevolmente aspirare; vi sarà presidio sicuro, nel vostro futuro, contro ogni inganno e contro ogni asservimento, per qualunque cammino vogliate procedere, e per qualunque meta vi prefissiate”.

Da dove ricominciare? A noi, che ben meno di lui siamo privi di ogni facoltà profetica, non deve sembrare cosa da poco e astratta partire almeno dalla farina di questa vostra terra, dalla sua volontà popolare che così chiaramente si è espressa.