A proposito del volume, edito da Zikkaron, curato da Roberto Villa: Giuseppe Dossetti. L’invenzione del partito. Vicesegretario politico della Dc 1945-46/1950-51

 

Il 1 novembre 1945, in un Teatro Municipale affollato da “gente di ogni pensiero e di ogni partito”, alla presenza delle maggiori autorità della Provincia e del Comune come dei capi dei vari partiti e organizzazioni, nella giornata fondativa della Democrazia Cristiana, una delle prime singolari invenzioni politiche di Giuseppe Dossetti, la “Giornata della Solidarietà popolare”, per l’apertura di una nuova stagione di speranza dopo le grandi tragedie della guerra, risuonano semplici ed efficaci le parole con le quali prende forma un progetto quanto mai solenne ed impegnativo: un “partito nuovo” per un “ordine nuovo” da istituire:

È un partito nuovo nei quadri, nuovo e giovane nei quadri. È un partito nuovo nei programmi. È un partito nuovo nelle aspirazioni. È soprattutto un partito non legato al passato.

È solo una delle tante “istantanee” che ci regala il volume, ricco e prezioso, dell’amico Roberto Villa, dedicato alla ricostruzione dei due periodi nei quali Giuseppe Dossetti si trovò a ricoprire la carica di vicesegretario della DC, il biennio 1945-46 e il biennio 1950-51, attraverso la raccolta di un cospicuo numero di testi autografi o di documenti di archivio in larghissima parte inediti, ordinati e inquadrati storicamente con mano sapiente e con raro gusto narrativo.

Il volume sarà presentato giovedì 15 dicembre a Bologna nella prestigiosa Sala Farnese di Palazzo d’Accursio. L’interesse che sta suscitando, sia in ambienti accademici sia in ambienti più squisitamente storico-politici, non rappresenta solo un giusto motivo d’orgoglio per gli studi che la nostra città ha saputo esprimere nel corso degli anni con il contributo di qualificatissimi esempi, ma anche la dimostrazione più eloquente di quanto la ricerca su Dossetti e il “dossettismo” sia ancora una vastissima “terra da arare”, come ricorda Villa a conclusione della sua densa Introduzione.

Del resto il volume si inserisce in un itinerario di ricerca e di lettura che ha impegnato Roberto Villa in diversi anni, con contributi originali su momenti non molto studiati, come le parole di Dossetti nei due anni di dibattito nel Consiglio comunale di Bologna (1956-1958) o la tesi di Dottorato del 2010, sulla fuoriuscita dalla DC, di cui il presente volume è il conseguente sviluppo; un itinerario segnato da un fortissimo legame con il maestro di una vita, ma anche da un preciso indirizzo interpretativo, che non ha mancato e non mancherà di suscitare ancora utili e vivaci confronti.

Attraverso un esame assai circostanziato della personalità carismatica del Dossetti leader politico (anche postulando una rivisitazione più accurata della parabola cronologica del “dossettismo politico” sia precedente che successiva ai sette anni di più diretta responsabilità, con le sue influenze dirette e indirette sulla DC e sul sistema politico italiano), Villa concentra la sua attenzione sulla straordinaria “laicità” di Dossetti («Non nel senso di un grado maggiore, ma proprio che nei suoi contemporanei non v’è traccia»), enfatizzando, nella sua lettura, quella che definisce una distinzione di piani di intervento della grazia divina nella storia e nella civitas humana.

Da questo punto di vista, una posizione centrale viene ad assumere un intervento pronunciato nel 1962 da Dossetti e ripreso in una recente pubblicazione dedicata agli equivoci del cattolicesimo politico, in cui, tra le tante suggestioni di ordine politico e teologico, viene anche ripreso un confronto critico e serrato con le diverse forme dell’impegno cattolico come il clericalismo geddiano ma anche il personalismo di matrice francese, riletto come un’altra sottile forma di integralismo da cui prendere le distanze.

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In estrema sintesi, a me pare di vedere in tutto questo sforzo interpretativo, solo superficialmente qui richiamato, la più convincente smentita, alle differenti versioni da più parti presentate o riproposte, nel corso del tempo, del cosiddetto “integralismo dossettiano” (molto presenti anche nel mio mondo di appartenenza, quello della famiglia socialcomunista, nel quale questa visione è stata a lungo dominante) e gli argomenti, peraltro tutti da sviluppare, maggiormente utili a superare  un equivoco che ha sempre pesato sul Dossetti politico, quello cioè relativo alla commistione «in lui della dimensione religiosa e di quella politica», commistione in cui la prima viene vista come prevalente sulla seconda «anche nel transito stesso dell’azione politica».

Del resto più lo sguardo sul Dossetti politico si fa ravvicinato, sembra volerci dire Roberto Villa, più queste distanze si dilatano, quasi che la volontà di interrogazione spirituale sempre più drammatica e profonda nel Dossetti teologo, a proposito dell’orizzonte dell’individualità cristiana, non autorizzi in alcun modo il fondamento della parola politica. La quale deve saper trovare altri e più terreni sedimenti.

Ma, al di là di questo complesso orizzonte, di cui ho voluto solo proporre un rapido cenno, il racconto di questi sette anni cruciali si fa davvero avvincente. E si rimane davvero sbalorditi dall’insieme dei valori teorici, delle capacità organizzative, dello scrupolo operativo, espressi da un vero “furore operativo” del Dossetti politico.

Le parole più minute, da quelle del volantino a quelle del documento programmatico, le cose più decisive, da quelle della pubblica manifestazione a quella dell’irrinunciabile percorso formativo, ci vengono squadernate attraverso documenti e materiali, e regalano squarci autentici ad un lettore non distratto.

Ma di cosa parlano in particolare queste carte? La risposta in questo caso è relativamente semplice. Di un qualcosa di nuovo che prende forma, tra fatiche e cedimenti, tra speranze e delusioni, tra un “dover essere”, segnato dallo slancio programmatico e innovativo, e un “essere”, condizionato dai troppi veti e disincanti, di stampo conservatore.

In sintesi, è come osservare da vicino, in una sorta di laboratorio, il prendere forma di un nuovo soggetto politico, il partito di massa moderno. Inutile dire che l’idea del partito nuovo verrà coltivata e praticata anche nell’altro campo, con non pochi parallelismi sia di natura cronologica sia di natura teorica, pur nelle marcate distinzioni ideologiche.

Il “partito nuovo” di matrice cattolica non esisteva e doveva essere inventato senza far troppo conto di modesti esempi europei, il “partito nuovo” di matrice togliattiana anche, con in più la difficoltà di superare (in un contesto assai aspro e fatto di tensioni sociali, di risentimenti violenti, di propositi vendicativi, nel cuore del feroce e tragico epilogo della stagione autoritaria) il modello giacobino-leninista della avanguardia esterna, vista come “coscienza” necessaria per orientare e guidare le grandi masse popolari.

Nelle differenze, forse un comune denominatore: il partito concepito più come uno strumento che come un fine. Non pochi in verità sono sia in un campo che nell’altro gli scivolamenti verso il prevalere di un’etica astratta del partito, con tutti i guasti conseguenti. Ma il nesso partito e democrazia in Dossetti e il nesso, di matrice gramsciana, tra partito e consenso in Togliatti, stanno a suggerire robusti antidoti.

Quale la fisionomia specifica di questo “partito nuovo” di marca dossettiana? Una prima ed esauriente risposta in un discorso tenuto a Treviso, il 14 dicembre 1945, discorso rivolto ai quadri del partito, nell’ambito di una assidua presenza in Veneto, caratterizzata dal forte impegno a favore della Repubblica, nonostante la posizione ufficiale della DC, attestata sulla equidistanza (Democrazia sostanziale e il “il seme repubblicano”). Vale la pena riportare per esteso il passo.

Che cosa è dunque democrazia? È forse il concetto di libertà reso in atto nella struttura politica? No: la libertà è per noi mezzo, metodo, non essenza né fine. Dobbiamo fare noi una distinzione che non fa il liberalismo: distinzione fra aspetto formale e sostanziale di democrazia. Sostanza della democrazia sta nella edificazione di una struttura che non è soltanto costituzione politica, ma è insieme costituzione politica e sociale nella quale sia sostanzialmente garantita a ciascuno la possibilità di espansione spirituale ma anche fisica del suo essere, pienamente conforme alla proporzionalità delle sue facoltà e dei suoi meriti.

Questa tensione «verso la realizzazione concreta di massima proporzionalità fra espansione piena della personalità e meriti individuali» viene identificata con la stessa democrazia. Democrazia  come proporzionalità, democrazia come processo: in questa visione il partito diviene uno strumento per unire le volontà di “parti” del popolo, associarle ad una comune dimensione, fatta di dialettica conflittuale e di dialogo. Non ci si può accontentare dell’aspetto formale delle libertà, poiché la situazione reale richiede mutamenti e progressi.

Ma noi sappiamo che le cose umane non vanno spontaneamente verso il bene, ma vanno invece spontaneamente verso il male, per questo noi ci proponiamo una struttura sociale che garantisca la proporzionalità accennata.

In questo gioco complesso di intrecci si definisce il campo del partito e quello della democrazia. Così Villa può chiosare: «…Il partito , e non il governo, era l’unico strumento che ,insieme all’ossatura istituzionale dello Stato, avrebbe potuto consentire il superamento della democrazia nominale dell’ordinamento liberale e la realizzazione di una “democrazia sostanziale”, nella quale il popolo avrebbe potuto essere “soggetto attivo” oltre che “oggetto” dell’azione politica».

Nel partito anche il peso delle relazioni umane, lo scotto delle separazioni inaspettate, le dure “repliche della storia” rispetto ai progetti sul futuro. Quanto alla analisi delle due dimissioni, quella del febbraio del ’46 per il dissenso sulla questione istituzionale, e quella forse più traumatica del ’51, non resta che rinviare all’intreccio dei documenti.

Dimissionato o dimissionario? Difficile non convenire con l’analisi proposta da Villa, che in genere mette in rilievo la forte distanza tra le proposte dossettiane e le resistenze di un mondo che in lui non può riconoscersi. Tema per la discussione. Con l’auspicio che l’elevatissimo tema della vocazione non assuma la funzione forse troppo comoda di temperare la ragione dei forti conflitti, con cui Dossetti ha dovuto confrontarsi, giungendo infine a scelte radicali.

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Infine non mancano esempi e riflessioni, tra le tante “carte “esibite, sui rischi insiti nella “invenzione” del partito. Così inevitabile diventa un confronto con la dimensione politica del nostro tempo, con tutti i suoi forti interrogativi sulla crisi della democrazia. Che ne è del partito moderno di massa? Quale pesante eredità ci ha lasciato?

Cosa è diventato il partito di massa? «… un centro di potere sradicato dalla società, proiettato verso lo Stato e il governo, e in ultima analisi incapace di alimentare l’ordine democratico», ricorda un recente commento di Alessandro Somma.

Non è possibile qui neppure accennare agli intrecci tra dimensione economica e politica, specialmente nel tempo del neo-liberismo, ma certo il declino dei partiti di massa è un tema che stiamo vivendo drammaticamente sia come causa del deterioramento della democrazia (fenomeni corruttivi) sia come effetto della offensiva prima insinuante poi sempre più prepotente che «il mercato ha portato contro la democrazia».

Tutto questo in fondo nella nostra storia politica ha un inizio “virtuoso” (sia pure frutto di un contesto drammatico e con molti seri impacci), di cui ci parla anche l’esperienza aurorale della DC dossettiana. Lo ricorda recentemente Gaetano Azzariti:

Fu attraverso i partiti e i loro dirigenti che l’Italia fu ricostruita attorno ad una visione di lungo periodo … la Costituzione ha rappresentato per un trentennio un collante identitario della nazione … la nostra classe dirigente si è rispecchiata nella Costituzione. Oggi non più.

La crisi politica, che stiamo attraversando, chiama in causa non solo ma anche il ruolo e il carattere dei partiti. Più in generale il vuoto di una “classe dirigente nazionale”, su cui penso che tutti possiamo convenire, nonostante la diversità di orientamenti anche sulle contingenze.

Ecco perché si rivela particolarmente utile uno sguardo a quei sette anni e oltre, ai suoi slanci e alle sue delusioni, perché ci parla del cammino difficile di una democrazia, che alle sue origini si fondava sulla ricerca (sempre incompiuta ed imperfetta) di una reale rappresentanza e di una reale sovranità, sia pure in un contesto segnato e limitato da nuove contrapposizioni internazionali.

Ecco perché forse lo steso esito del Referendum costituzionale andrebbe giudicato da tutte le parti in causa con maggior favore: il forte legame popolare con la Carta, clamorosamente riconfermato dall’esito del voto referendario, andrebbe infatti valutato anche al di fuori degli schieramenti partitici su cui tanto insistono le spiegazioni sin troppo scontate dei sondaggisti.

Echi dossettiani risuonano ancora con nettezza, nelle cronache di questi giorni, quando viene sottolineato il valore ideale e materiale che la Costituzione ancora rappresenta in un’Italia sempre più spaesata e disuguale.

Nelle parole di Walter Tocci, nel suo recente intervento “impossibile”, l’invito a riconsiderare la nostra stessa storia:

I suoi principi non sono reliquie da conservare in una teca, ma un’eredità vivente e una promessa per l’avvenire. Così l’avvertono i ceti popolari: istintivamente sentono che la Carta è dalla loro parte, è un sentimento radicato nella storia repubblicana, ma le attuali classi dirigenti non riescono più a comprenderlo …

Nelle parole di Enrico Berlinguer, nel più lontano 1983, l’anno prima della sua prematura scomparsa, il richiamo severo e drammatico sulla deriva pericolosa assunta dai partiti, sempre più lontani dal dettato costituzionale. Nessuna riforma, ricordava, sarebbe servita senza una loro autentica rigenerazione.

E senza partiti, è l’interrogativo di giovani studiosi che si sono recentemente misurati con questi temi, è possibile frenare la disgregazione che oggi colpisce la democrazia italiana? Senza inseguire modelli del passato, ma pur sempre con l’ambizione costituzionale di far loro rivestire un nuovo ruolo da collettori democratici?

Il lavoro di Roberto Villa, nel suo respiro storico e nel suo approccio problematico, è davvero un bel contributo anche per cominciare a fare davvero i conti con questo nostro difficile e inquieto orizzonte.

 

di Lorenzo Capitani