Ricorre oggi il settantesimo anniversario del più celebre discorso che Giuseppe Dossetti tenne in Assemblea Costituente.
Il 21 marzo 1947 il giovane “professorino”, a pochi giorni dall’apertura del dibattito in seduta plenaria, affrontava la discussione sull’art. 5 del progetto della Costituzione, che poi divenne l’attuale art. 7: Dossetti era stato, fin dai lavori della prima sottocommissione, il canonista di riferimento per la DC e per la Segreteria di Stato.
In quella sede prendeva la parola per difendere il risultato faticosamente raggiunto di inserire nel progetto costituzionale alcuni principi particolarmente cari alla Santa Sede: l’originarietà e l’indipendenza dell’ordinamento della Chiesa; la fonte bilaterale di produzione delle norme nelle materie concorrenti; la necessità dei concordati per modificare i rapporti tra i due ordinamenti. In particolare sul principio concordatario, Dossetti prendeva parte per un’interpretazione, tutt’altro che pacifica, della non costituzionalizzazione delle norme dei Patti Lateranensi del ‘29, ma soltanto del principio di produzione giuridica mediante Concordato.
Per molto tempo, nel ricostruire l’apporto di Giuseppe Dossetti alla Costituzione, ci si è limitati al commento di questo discorso e al contributo del giurista reggiano nella risoluzione della “questione cattolica”. Non è però a questo che si può ridurre il suo lavoro ed è proprio la seduta del marzo del ’47 a svelare, tra le righe, un progetto più ampio e condiviso.
Il primo elemento, legato alla personalità di Dossetti, che si può trarre dalla lettura degli atti dell’Assemblea è il rapporto di fiducia che Dossetti riuscì ad instaurare con tutte le forze politiche e, in particolare, con quelle progressiste. Indice di questo clima, nonostante il tema dei Patti Lateranensi e del riconoscimento della Chiesa fosse altamente divisivo, sono le parole affettuose di Mario Cevolotto che precedettero l’intervento di Dossetti:
«Dico l’amico Dossetti – affermava l’esponente del Partito Democratico del Lavoro – perché nella consuetudine della prima Sottocommissione noi siamo diventati veramente amici, al di fuori di ogni differenza di idee e di vedute, secondo il buon costume antico, secondo il costume che c’era prima del fascismo, quando essere avversari politici non voleva dire essere nemici e non rispettarsi reciprocamente».
Un secondo elemento emerge da una rassicurazione che Dossetti esprime a metà del suo discorso. Alla preoccupazione – sostenuta da Cevolotto e, ancor prima, da Calamandrei – che il testo dell’art. 5 trasformasse lo Stato quale strumento temporale dei fini della Chiesa, il canonista rispondeva:
«Ora tale preoccupazione, onorevole Cevolotto e onorevole Calamandrei, non è solo vostra, ma potrebbe essere anche nostra [della Democrazia Cristiana, ndr.], se ci fosse un residuo di pericolo al riguardo. Ma non c’è. Noi crediamo che sia una conquista, ormai realizzata, di una gradualità più piena e di un approfondimento più consapevole dello spirito cristiano, il processo di decantazione del pensiero e della prassi cattolica, verificatosi nell’ultimo secolo; per cui si esclude che lo Stato possa comunque essere ridotto a strumento del fine della Chiesa».
Dall’inciso citato emerge una posizione netta sul rapporto tra Chiesa e potere politico che, se pur ovvio oggigiorno, non era per nulla scontato allora. Pochi mesi prima, dalle proposte di Costituzione de “La Civiltà Cattolica” emergeva come preferenziale la scelta per uno Stato confessionale. In Dossetti prevaleva invece l’intuizione che la separazione della Chiesa dallo Stato sarebbe stata, oltre che per l’Italia, un bene per la comunità cristiana.
Altri due passaggi di quel discorso devono essere ricordati. Uno è quello che affonda le radici nell’impegno resistenziale nelle colline reggiane. Al termine della lunga e articolata relazione giuridica in difesa dell’art. 5, affiorò il ricordo delle fatiche della Resistenza e di una “Pasqua di sangue”:
«Quasi due anni fa, il giorno di Pasqua del 1945, sull’Appennino Reggiano. Prima delle prime luci dell’alba, venivamo svegliati dall’annuncio che truppe, o meglio orde tedesche e fasciste avevano rotto una parte del nostro schieramento sul Secchia. Incominciava così una giornata di Pasqua, che fu giornata di duri combattimenti. Al mattino eravamo costretti a retrocedere; nel pomeriggio arrestavamo le orde che erano avanzate soprattutto valendosi di un tradimento (una parte di brigata nera si era camuffata da partigiani). Avevamo già avuto dei morti, parecchi morti. Verso sera il nemico fu ricacciato. La vittoria. Ma la sera fu triste. Proprio una delle ultime fucilate aveva colpito Elio, il nostro vice comandante di Brigata. Era venuto alla nostra brigata da formazioni garibaldine, dove si era fatto stimare ed amare. E tutti noi l’avevamo stimato ed amato, per la sua capacità, il suo valore, la sua bontà. Era ferito mortalmente, ma ancora non se ne rendeva conto e sperava nell’intervento chirurgico di un nostro amico; ma l’amico, oggi qui tra noi, non poté che annunziarci che la morte era ormai imminente. E allora qualcuno dovette assumersi il compito di far sì che quel sacrificio, iniziato con tanta generosità, conoscesse anche la suprema generosità: quella di consumarsi consapevolmente. Credetti così di dovergli dire che la vita era ormai finita per lui e di dovergli chiedere che egli consapevolmente la offrisse per noi: perché tutti diventassimo più buoni, più fedeli alla bandiera che servivamo, più disposti a immolarci come lui per il rinnovamento d’Italia. Bastarono poche parole perché egli comprendesse ed assentisse, e con gli ultimi esili sforzi della voce confermasse ciò che gli avevo chiesto. E noi presenti giurammo allora, di fronte a un sacrificio così grande e così consapevole, che avremmo sempre sentito e osservato l’impegno che esso importava per noi. Questo è l’impegno, con il quale oggi vi parlo».
Rileggendo questo passo, credo si possa capire lo spirito con il quale il commissario democristiano abbia affrontato l’impegno costituente: edificare una casa comune che portasse finalmente la pace in un Paese ferito dalla dittatura e martoriato dalla guerra. Da qui nacque anche l’impegno in difesa della Costituzione dell’ “ultimo Dossetti” che tornò a far sentire la sua voce negli anni ’90. Ed è proprio a questa difesa della pace nell’Italia del dopoguerra che si riconnetteva l’impegno per una “democrazia sostanziale”, unica via attraverso la quale far crescere complementariamente le diverse anime del Paese. Nella parte conclusiva del discorso Dossetti lanciava un appello all’Aula.
«Onorevoli colleghi, voi avete sentito nel dibattito, che ha preceduto questo mio discorso, la volontà comune che anima molti dei membri di questa Assemblea (vorrei sperare tutti), perché dal nostro sforzo risulti una Costituzione che dia veramente un volto nuovo al nostro Stato, che assicuri a tutti gli italiani una democrazia effettiva, integrale, non solo apparente e formale, ma veramente sostanziale, una democrazia finalmente umana».
Mi pare che in questa espressione, in massima sintesi, si possa trovare il vero contributo di Dossetti alla Costituzione. La formulazione dell’art. 5 era un pezzo di un mosaico più ampio, una battaglia affinché la «pienezza integrale della coscienza» dei cattolici potesse entrare nella democrazia italiana, superando l’annosa “questione cattolica”. Il vero fine però era la costruzione di una democrazia integrale, finalmente umana, di cui la Costituzione era, per Dossetti, il primo e fondamentale mattone.
Andrea Michieli
Discorso dell’On. Giuseppe Dossetti del 21 marzo 1947, durante la seduta plenaria dell’Assemblea Costituente, concernente la discussione generale delle «Disposizioni generali» del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.
«Onorevole Presidente, onorevoli colleghi, mentre mi accingo al grave compito di concludere questo importante dibattito intorno all’articolo 5 del progetto di Costituzione, mi torna alla mente una frase di Disraeli che l’onorevole Presidente della Commissione dei 75 ci ha di frequente ricordata durante i nostri lavori. A proposito della efficacia delle discussioni parlamentari, disse un giorno Disraeli che durante la sua carriera politica aveva ascoltato infiniti discorsi, che pochissimi gli avevano fatto cambiare opinione, che nessuno gli aveva fatto modificare il voto. E naturalmente questo ricordo accentua un certo senso di scetticismo e di sfiducia sulla mia possibilità di determinare un mutamento nelle convinzioni e tanto più nelle deliberazioni dei colleghi che hanno criticato l’articolo 5.
D’altra parte il mio compito è, in qualche modo, facilitato dal fatto che io — per rispondere alle obiezioni tecniche e politiche sollevate durante questo dibattito — non ho da costruire un complesso edificio logico, ma posso limitarmi a un mezzo molto più semplice, direi quasi banale: limitarmi, cioè, a propalare un segreto, che gli spiriti magni del diritto, intervenuti in questa discussione — l’onorevole Orlando, l’onorevole Calamandrei e gli altri che con tanta scienza e abilità hanno attaccato l’articolo — vi hanno tenuto gelosamente nascosto.
Essi ci hanno fatto intravedere dei delicati strumenti giuridici e ci hanno detto che tali strumenti non consentono di approvare l’articolo 5, senza contraddire al carattere costituzionale delle norme che stiamo elaborando e senza, soprattutto, menomare la sovranità dello Stato.
E vi hanno detto, in certo modo, la verità; ma non tutta. Vi hanno detto la verità quanto agli strumenti che vi hanno mostrato: perché, è esatto, nessuno di essi consente l’approvazione dell’articolo 5. Ma non vi hanno detto che gli strumenti, di cui vi hanno fatto parola, sono vecchi e ormai da tempo superati e che essi, i grandi Maestri, sono appunto grandi perché nel segreto dei loro laboratori hanno saputo costruire e perfezionare altri strumenti, molto più recenti e raffinati, i quali ci permettono di compiere la delicata operazione che con gli altri non appare possibile.
Ma, per poterli impiegare efficacemente, occorre, anzitutto, usare una cautela che, invece, non è stata rispettata dall’ultimo oratore che mi ha preceduto, l’onorevole Cevolotto: cioè occorre mantenere distinti, nell’esame e nella trattazione, i vari principî affermati nell’articolo 5. L’onorevole Cevolotto ha troppo di frequente intrecciata la considerazione del primo comma con quella del secondo comma. Il primo riguarda la qualificazione delle due società, lo Stato e la Chiesa, ciascuna considerata in se stessa, cioè riguarda, diciamo, la considerazione, al di fuori di ogni contatto, statica; il secondo riguarda essenzialmente i loro rapporti e quindi la loro considerazione dinamica. Ora, non si può fare — e lo dimostrerò fra breve — una confusione tra i due aspetti e una trattazione contemporanea dei due argomenti.
Noi dobbiamo, dunque, distinguere rigorosamente i diversi principî affermati nell’articolo 5.
Il primo principio è quello contenuto nel primo comma: «Lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani».
Sapete già, da quanto ha detto l’onorevole Cevolotto, come sia nato questo comma. Esso è nato da una mia proposta che tendeva ad una affermazione più rigorosamente tecnica: «Lo Stato riconosce… come originari l’ordinamento giuridico internazionale, gli ordinamenti degli altri Stati e l’ordinamento della Chiesa».
Parve a qualcuno che questa affermazione avesse un suono un po’ troppo barbaramente tecnico ed insolito, ed allora si passò, soprattutto su iniziativa dell’onorevole Togliatti, alla formula attuale, meno tecnica ma di più evidente significato giuridico-politico. Però la espressione adottata ha lo stesso preciso significato della formula iniziale e alla luce di questa deve essere interpretata. Infatti, che cosa vuole dire riconoscimento dell’originarietà dell’ordinamento giuridico della Chiesa cattolica, se non appunto riconoscimento della indipendenza e sovranità della Chiesa stessa? E che cosa significa indipendenza della Chiesa (non nel senso incerto e nebuloso, accennato dall’onorevole Cevolotto, di una indipendenza che non si sa se sia esterna o interna allo Stato, ma indipendenza che è sovranità) se non appunto affermazione dell’originarietà dell’ordinamento canonico?
Le due formule sono di sicuro equivalenti. Per convincersene basta richiamare quella distinzione tra ordinamenti originari e ordinamenti derivati, che la reticenza un po’ gelosa ed egoista dell’onorevole Orlando e dell’onorevole Calamandrei non ci ha chiarito.
L’onorevole Calamandrei è stato il primo, mi pare, a parlarci di pluralità degli ordinamenti giuridici; e su questa pluralità è tornato l’onorevole Orlando e poi da ultimo l’onorevole Cevolotto, il quale ha anche fatto un fugacissimo cenno agli ordinamenti originari. Ma nessuno di essi, mi sembra, ci ha dato con deliberata precisione e nettezza il concetto di Ordinamento originario: concetto che pure è uno di quei tali strumenti fondamentali usati in questo ambito misterioso della tecnica giuridica, di cui abbiamo sentito qui dire bene e dire male, ma che, in sostanza, è la piattaforma su cui per questi nostri problemi ci dobbiamo muovere.
Ordinamento originario è ogni ordinamento che non deriva la propria giustificazione e il proprio fondamento da altro: così che, si noti bene, la sua giuridicità, cioè la norma prima che sta alla sua base, si confonde con l’esistenza storica della società, di cui l’ordinamento è la veste giuridica.
Ordinamento derivato, invece, è ogni ordinamento che desume — deriva — la sua giuridicità, cioè la sua qualità di ordinamento giuridico, da un ordinamento superiore: ossia è tale che la sua norma fondamentale non si confonde con l’esistenza storica della società, ma si collega a un ordinamento superiore. Per esempio, quando l’articolo 107 del nostro progetto di Costituzione ci dice che lo Stato italiano si riparte in regioni e comuni, pone precisamente la norma fondamentale dei singoli ordinamenti, derivati, regionali e comunali.
A questa prima distinzione, dobbiamo farne seguire una seconda: tra ordinamenti originari che sono ordinamenti statuali e ordinamenti originari che non sono statuali.
Se, certo, l’ordinamento dello Stato è originario, ed è anzi la forma tipica, immediatamente evidente e per molto tempo ritenuta la sola, di ordinamento originario, è oggi ormai pacifico che vi possono essere ordinamenti giuridici originari che non sono statuali.
Orbene, per ammissione oggi comune, l’ordinamento della Chiesa Cattolica è un ordinamento originario. Cioè la dottrina giuspubblicistica ed ecclesiasticistica moderna è oggi unanime nel riconoscere che la Chiesa cattolica (noti bene l’onorevole Crispo, non la Città del Vaticano, che è il nucleo territoriale in cui hanno sede gli organi centrali della Chiesa, ma la Chiesa cattolica in quanto società universale e spirituale) ha una sfera propria in cui essa opera per la prosecuzione dei suoi fini spirituali e religiosi; una sua autosufficienza di mezzi e di strutture organizzative; una sua consolidazione storica; e perciò una propria giustificazione come ordinamento giuridico, che non deriva da nessun altro.
Ma quando si dice questo, quando cioè si dice che, anche indipendentemente dalla istituzione per me, cattolico, divina, che ha dato origine alla Chiesa, questa ha una consolidazione storico-giuridica che le consente di affermarsi come ordinamento originario, allora si dice appunto che la Chiesa cattolica ha una sua autonomia, che non è autonomia derivata come quella che noi ci apprestiamo a riconoscere alle regioni e ai comuni, ma è autonomia primaria, cioè vera indipendenza e sovranità.
Qualcuno di voi, o onorevoli colleghi, in merito a questa sovranità ha richiamato l’opinione di giuristi della «Civiltà Cattolica»: l’opinione del padre Lener, per esempio; ma tale richiamo non viene, in sostanza, a modificare il significato e la portata dell’originarietà dell’ordinamento canonico e della sovranità ad essa correlativa. Il concetto fondamentale rimane sempre questo: che di fronte all’originarietà dell’ordinamento statale e di fronte alla sovranità dello Stato, che si esplica essenzialmente come sovranità temporale, politica, territoriale, c’è invece una originarietà dell’ordinamento della Chiesa cattolica, cui compete una sovranità essenzialmente non temporale e non territoriale. Se ieri l’onorevole Calamandrei ci richiamava una frase del padre Lener che, avulsa dal contesto, poteva parere di significare in parte qualche cosa di diverso, tale frase voleva dire semplicemente che la sovranità della Chiesa, se non è temporale e territoriale, non è però fuori del tempo e dello spazio, proiettata solo nell’eternità e, se ha per oggetto proprio il mondo dello spirito e delle coscienze, non è per questo meno propriamente e concretamente sovranità in senso giuridico.
Ora questi concetti, che ho qui sommariamente ripreso, non sono un’escogitazione dei giuristi della «Civiltà Cattolica», ma sono un’opinione corrente tra i giuspubblicisti contemporanei. Anzi (poiché questo nome tanto autorevole e tanto meritevole di essere ricordato nel presente dibattito costituzionale, è già stato qui più volte citato), è stato appunto Francesco Ruffini, se non il primissimo, certo uno tra i primi ad affermare e diffondere il concetto della originarietà dell’ordinamento canonico. Oltre alle opere che tutti conoscete — e in particolare quei Diritti di libertà che sono stati più volte ricordati in questa aula — c’è un’altra opera di Francesco Ruffini, scarsamente nota, perché si tratta di un corso universitario, di cui son rimaste superstiti pochissime copie: Le Questioni di diritto ecclesiastico svolte nell’Università di Torino, nell’anno accademico 1911-12. Ebbene, questo corso è in buona parte dedicato precisamente alla dimostrazione dell’autonomia della Chiesa cattolica, come autonomia primaria ed originaria. Da allora ad oggi tutta la dottrina giuspubblicistica italiana si è consolidata intorno a questi concetti.
Tutti i nostri maestri di diritto ecclesiastico, cattolici e non cattolici, cristiani e non cristiani (compreso fra questi Mario Falco, al cui nome, già qui da altri richiamato, ritorna il mio reverente ricordo) ci insegnano la stessa cosa.
Dunque, se si fossero applicati questi insegnamenti, si sarebbero molto facilmente superate le obiezioni sollevate contro il primo comma dell’articolo 5.
Si sarebbe superata l’obiezione dell’onorevole Orlando, il quale ci ha detto che la esplicita dichiarazione della sovranità della Chiesa è per lo meno superflua, dal momento che si ammette il principio della pluralità degli ordinamenti giuridici. Ma non basta, onorevole Orlando e onorevole Cevolotto, riconoscere la pluralità degli ordinamenti giuridici: occorre anche riconoscere, ed esplicitamente, che la Chiesa non soltanto è un ordinamento giuridico, ma è un ordinamento giuridico originario, e per ciò è sovrana nella sfera che le è propria.
Così si sarebbero superate le obiezioni sollevate dall’onorevole Calamandrei nel suo primo discorso e da lui ripetute e svolte ieri, e soprattutto si sarebbe superato il rilievo che questo primo comma non ci consente di capire se noi ci troviamo di fronte a un monologo dello Stato, cioè a una Costituzione, oppure a un dialogo, cioè a un Trattato. È sì, vero che noi siamo di fronte a una Costituzione; ma anche in questo lo Stato, quando parla di altri ordinamenti originari (siano essi statuali o no) non ne può parlare che come ne parla in un Trattato, cioè con l’affermazione della propria e col riconoscimento dell’altrui originarietà e sovranità.
Con questo, inoltre, cade anche l’altra obiezione — direi quasi piuttosto fiorentinamente scherzosa che obiezione seria — proposta dall’onorevole Calamandrei: ossia perché qui si parli della indipendenza e sovranità della Chiesa e non si parli, invece, di quella, per esempio, della Francia. Il perché è chiaro. Della qualifica di ordinamento giuridico e di ordinamento originario e della sovranità della Francia nessuno dubita; mentre della originarietà dell’ordinamento canonico e quindi della sovranità della Chiesa, oggi, tra i tecnici nessuno dubita… ma vi è qualcuno, fra i politici, che può avere convenienza a dubitare o a fingere di dubitare.
Infine, se l’onorevole Orlando e l’onorevole Calamandrei e gli altri, che qui sono maestri del diritto, non ci avessero defraudato del meglio della loro scienza, non sarebbero accaduti all’onorevole Crispo i vari infortuni che gli sono occorsi. E dire che l’onorevole Crispo, del quale a tutti è noto l’acume giuridico e la forza dialettica, non è un laico del diritto, è un chierico. Anche se forse, in questa materia, sembra essersi arrestato agli ordini minori, direi anzi all’esorcistato, per la passione con la quale egli ha tentato di esorcizzare un demone, il demone della superbia temporale della Chiesa. Infatti egli ha finito per confondere cose profondamente differenziate e giacenti su due piani totalmente diversi, cioè: la sovranità di cui parla qui il primo comma dell’articolo 5, cioè la sovranità universale, ma non statuale, bensì del tutto singolare (spirituale e sovratemporale) della Chiesa cattolica; e la sovranità, invece, di cui al Trattato tra l’Italia e la Santa Sede o di cui alle leggi fondamentali dello Stato della Città del Valicano, sovranità temporale, statale, e specificatamente limitata a un minuscolo territorio.
Concludendo, dunque, l’esame del primo comma dell’articolo 5, possiamo dire:
— da un lato, se qui parliamo di «indipendenza e sovranità della Chiesa cattolica», ne parliamo nel senso proprio e tecnico di cui alla mia proposta iniziale in sede di Sottocommissione, cioè nel senso che riconosce alla Chiesa cattolica la qualità di ordinamento giuridico originario e perciò un’autonomia primaria;
— d’altro lato, se noi, contrariamente ai desideri dell’onorevole Della Seta (che ha proposto il seguente emendamento: «Lo Stato e le singole Chiese sono, ciascuna nel proprio ordine interno, indipendenti e sovrane»), di questa sovranità e autonomia parliamo solo per la Chiesa cattolica e non per le altre Chiese, ciò non è per una ragione di principio, ossia perché neghiamo che qualsiasi altra Chiesa possa conseguire quella indipendenza e autonomia; ma è invece per un inoppugnabile dato storico, cioè per il fatto che sinora solo la Chiesa cattolica, per la universalità della sua diffusione, per l’indipendenza effettiva da qualsiasi Stato, per la completezza dei suoi organi (legislativi, amministrativi e giudiziari) e per la ininterrotta consolidazione storica del suo ordinamento, si presenta come ordinamento originario. Certo, onorevole Cevolotto, anche gli Ebrei hanno un loro ordinamento, una legge che io come cristiano non posso non rispettare e non riconoscere nei suoi precetti fondamentali di origine divina; ma come giurista non posso dire che oggi, di fronte al diritto e alla coscienza giuridica universale, l’ordinamento storicamente originario degli Ebrei sia originario anche in senso tecnico, si ponga cioè con tutta l’esteriorità, la completezza, l’autosufficienza di mezzi e di organizzazione, la consolidazione di una sua sfera di vigore (nel riconoscimento dello Stato e delle nazioni) propria degli ordinamenti giuridici primari e sovrani.
E quanto alle altre Chiese, specie a quelle scaturite dalla Riforma, o non sono ordinamenti originari o addirittura non sono per nulla ordinamenti giuridici. E sapete perché? Non perché noi neghiamo loro il carattere di ordinamento giuridico, ma perché esse lo rifiutano. Voi non potete dimenticare che Martin Lutero, alle mura del castello di Wittenberg, non bruciò soltanto la bolla papale di scomunica, ma bruciò anche il Corpus iuris canonici, qualificandolo come ereticale, anti-naturale e anticristiano, affermando, quindi, la pretesa di una irriducibile contraddittorietà tra il genuino spiritualismo evangelico e l’organizzazione della Chiesa come società giuridica. Non potete, non possiamo, dimenticare che, per lo spirito della Riforma, la Chiesa non può risultare anche di un ordinamento giuridico che leghi i fedeli; ma solo del vincolo interiore della comunanza di fede e di carità nei cuori. Non possiamo, insomma, dimenticare come tutte le Chiese che si riconducono allo spirito della Riforma si negano, e vantano di negarsi, come ordinamenti giuridici.
Passiamo ora al secondo principio, posto dall’articolo 5 del progetto, e precisamente presupposto (più che letteralmente affermato) nel secondo comma: il principio, cioè, che se la Chiesa e lo Stato sono entrambi ordinamenti originari esterni l’uno all’altro, indipendenti e sovrani, nel senso che ciascuno ripete la propria norma fondamentale da se stesso e dalla propria consolidazione storica e non dall’altro, allora i rapporti tra questi ordinamenti non possono essere regolati se non da una disciplina bilateralmente convenuta.
Anche a questo proposito, amici e colleghi (permettete e scusate se io ho confidenzialmente adoperato questo vocativo, perché mi pare che questo dibattito, avviandosi alla fine, ci abbia veramente resi, al di sopra delle nostre divergenze, più interamente amici e più intimamente capaci di intenderci l’un l’altro), mi sembra, dicevo, che anche a questo proposito noi dobbiamo prendere atto di una importante novità, che non ci è stata comunicata dai precedenti illustri oratori e che è da troppi ignorata: il problema dei rapporti fra Stato e Chiesa è un problema che da parecchi anni non si pone più nei termini filosofico-politici del passato e secondo le dibattute contrapposizioni ideologiche di laicismo o laicità e di confessionismo o confessionalità dello Stato. Troppi di noi non considerano che queste sono ormai larve del passato e che al loro posto, al posto della genericità delle vecchie dispute cui esse davano luogo, si è sostituito ora il rigore dimostrativo di precise formule giuridiche e, se mai, alcuni dei più raffinati concetti della moderna teoria generale del diritto.
Perciò, onorevoli colleghi, non aspettatevi che io resti legato, come a impostazione necessaria e fondamentale, al dilemma laicismo o confessionismo, che ha formato, nei giorni scorsi, la croce e la delizia di tanti di voi.
Quando io ne sento discorrere, provo un senso vago che mi riporta a uno dei miei più lontani ricordi infantili: al giorno in cui mia madre mi portò dalla campagna, dove vivevo, in città a trovare mia nonna. E allora, entrato nel «salotto bello» di mia nonna, due cose mi colpirono, due cose che poi hanno per me sempre caratterizzato mia nonna e i suoi tempi: cioè due mazzi vistosissimi di fiori di pezza sotto due campane di vetro e poi un quadro, o meglio una grande oleografia, che rappresentava la Vispa Teresa, che con la vestina volante e i capelli d’oro fluenti sulle spalle rincorreva farfalle.
Ora io mi chiedo: forse che le dispute sulla laicità non sono un po’ come fiori di pezza che hanno conservato i loro vivaci colori sotto campane di vetro? (Applausi al centro).
E quando sento soprattutto l’onorevole Nenni insistere su questo argomento, non so per quale mistero dell’inconscio, mi torna in mente l’oleografia di mia nonna con la Vispa Teresa (Si ride): non credo che si tratti per ragione dei capelli d’oro fluenti — nel caso dell’onorevole Nenni — sarà invece, per ragione delle farfalle.
Quando richiamiamo, per avvalorare la tesi del laicismo, la qualifica di repubblica laica che la Francia si è data nella nuova Costituzione e assumiamo questo come l’esempio dell’estrema modernità e spregiudicatezza, amici e colleghi, commettiamo un errore, un grosso errore. Non teniamo conto che in certo senso la Francia è in questa materia arretrata di una cinquantina d’anni (Commenti), cioè non teniamo conto che il laicismo francese, della legislazione separatista ed eversiva, è incominciato cinquant’anni dopo il laicismo italiano (Interruzioni a sinistra) e non ha ancora subìto quel completo processo di decantazione che invece ha subìto, come voi stessi avete più volte ripetuto, il laicismo italiano. (Applausi al centro). Quanto ai rapporti fra Stato e Chiesa, la Francia oggi può essere considerata, più o meno, in quello stadio che l’onorevole Nitti e l’onorevole Orlando ci hanno descritto per l’Italia negli anni 1917-19, cioè ai prodromi dell’accordo bilaterale, che in Italia si è già potuto conseguire, appunto perché noi abbiamo avute un processo di decantazione storica più avanzato.
Ma veniamo ormai al centro e alla sostanza del problema. La sostanza è questa: il principio prima enunciato dell’autonomia originaria dello Stato e della Chiesa cattolica, implica, per un rigore logico che non consente evasioni, tutta una serie concatenata di conseguenze, che ci porta come sbocco fatale all’altro principio della bilateralità necessaria della disciplina dei rapporti fra le due società. Implica, infatti, anzitutto, distinzione netta e sicura fra Stato e Chiesa e impossibilità di confondere le rispettive autorità, i rispettivi poteri e le rispettive sfere: nessun richiamo ai concetti di laicità e di separazione può assicurare una demarcazione così netta, così precisa come, invece, assicura la formula rigorosamente tecnica del riconoscimento reciproco della originarietà dei due ordinamenti.
Implica, in secondo luogo, parità. L’onorevole Cevolotto ha accennato ora a una tesi canonista di un’assoluta superiorità della Chiesa, e ha richiamato alcune opinioni che porterebbero a far temere una limitazione della sovranità dello Stato. Niente di tutto questo. Entrambe le potestà, per il fatto stesso che si riconoscono come ordinamenti originari e quindi non ripetenti la propria norma fondamentale l’una dall’altra, si vengono a porre — quanto al diritto — su un piano di parità. L’una e l’altra ha un proprio fine che ciascuna persegue autonomamente nel proprio ordine. Nessuna di esse delega o attribuisce poteri all’altra o può, per contro, in qualsiasi modo, diventare strumento dell’altra.
Implica, in terzo luogo, irrilevanza, per l’uno, della maggior parte dei fenomeni e dei rapporti, che formano oggetto diretto e fine proprio dell’altro ordinamento.
Implica, in quarto luogo, inevitabilità, tuttavia, di certi rapporti, in cui i due ordinamenti, aventi per soggetti sempre le stesse persone, hanno entrambi un interesse e che, quindi, divengono rilevanti tanto per lo Stato come per la Chiesa, tanto per la società temporale come per quella spirituale e sovratemporale. Il che basta perché i due ordinamenti debbano venire a contatto (sia pure in questa ristretta linea di confine). I miei amici Jacini e Giordani vi hanno già documentato storicamente la perenne e costante realtà di questo contatto e la inesistenza di esempi passati o presenti in cui il contatto sia sostituito effettivamente (e non nominalmente) e per tutti i rapporti (senza eccezione alcuna) dalla reciproca ignoranza integrale, cioè dal famoso parallelismo all’infinito. Al dato storico, possiamo ora aggiungere la prova tecnica. Il contatto non solo non è mai stato evitato, ma è inevitabile, come è quindi inevitabile il reciproco riconoscimento: precisamente perché non si può escludere in nessuna maniera che vi siano dei rapporti che, pur avendo carattere spirituale e formando, quindi, oggetto della sfera che è la sfera normale di interesse e di rilevanza per la Chiesa, tuttavia abbiano un certo interesse e una certa rilevanza anche per lo Stato, e viceversa.
Implica, infine, l’impossibilità che il contatto (inevitabile) avvenga solo per atto unilaterale dell’uno o dell’altro ordinamento, e quindi la necessità che esso avvenga per via di atto bilaterale. Se il contatto è inevitabile, e se esso deve implicare il reciproco riconoscimento come ordinamenti primari, esso non può altro che avvenire attraverso un negozio bilaterale di diritto esterno fra ordinamenti originari, cioè attraverso quel tipo di negozio che si chiama concordato. Ove, invece, esso avvenga al di fuori dell’atto bilaterale, per atto unilaterale di diritto interno di uno dei due, o dello Stato o della Chiesa, allora si ha sempre disconoscimento, denegazione dell’originarietà dell’altro ordinamento, e assoggettamento (totale o parziale) dello Stato alla Chiesa, e quindi un regime almeno parzialmente teocratico, oppure assoggettamento (totale o parziale) della Chiesa allo Stato e, quindi, un regime, almeno parzialmente, giurisdizionalista.
Dunque, la disciplina bilaterale, concordataria, delle materie di comune interesse per la Chiesa e per lo Stato — e solo essa — non implica confusione tra le due potestà, come non implica limitazione né della sovranità dell’una né della sovranità dell’altra. Non implica confusione: infatti, ammettere il principio della necessaria bilateralità della disciplina degli interessi comuni, non implica per sé quelle commistioni, quelle ingerenze della Chiesa nello Stato e dello Stato nella Chiesa, che voi deprecate e che noi intendiamo evitare con zelo e passione per lo meno non minore della vostra. E ciò è tanto vero che, come notava da ultimo un insigne costituzionalista, che fa aperta professione di marxismo, il Crisafulli, nell’ultimo numero (gennaio-febbraio 1947) di «Rinascita», il sistema della coordinazione concordataria è un sistema adottato anche tra Stati non cattolici o da Stati pluriconfessionali.
D’altra parte, tale sistema non implica nessuna limitazione della sovranità statuale; lo riconosce, tra gli altri, appunto il Crisafulli in termini così categorici che non posso non citarli: «Tale circostanza (cioè la possibilità di concordati tra la Chiesa e Stati non cattolici) conferma quanto si è precedentemente osservato circa la sostanziale trasformazione venutasi verificando tra le forme medievali di unione fra Stato e Chiesa e le moderne unioni concordatarie: le quali ultime lasciano tanto lo Stato quanto la Chiesa perfettamente liberi e indipendenti nella propria sfera rispettiva; partono proprio dal presupposto di questa piena sovranità dei due ordinamenti; fondandosi sopra una convenzione bilaterale, liberamente stipulata e in questo senso analoga ai trattati internazionali, con la quale Stato e Chiesa si mettono d’accordo circa la regolamentazione giuridica da dare alle materie di interesse comune, alle inevitabili zone di interferenza tra i due poteri nel campo della vita associata, svolgentesi sul territorio statuale».
Qui, onorevoli colleghi, nel riconoscimento della necessità di una disciplina bilaterale delle materie di comune interesse, è la vera separazione tra Chiesa e Stato, la vera indipendenza reciproca, la vera laicità, la vera libertà di coscienza.
Che cosa è, infatti, la libertà di coscienza se non questo: cioè il riconoscimento che certi fatti o atti o rapporti, che pure non sono irrilevanti per lo Stato, presentano un accentuatissimo carattere di specialità, che li differenzia da tutti gli altri entranti nella sfera di interesse dello Stato? E questa specialità sta appunto nella connessione che tali fatti o rapporti presentano con l’interiorità più riposta e più gelosa dello spirito e della coscienza individuale, sì che lo Stato deve ammettere che esso non può brutalmente intervenire, colla propria sola autorità e potestà, a disciplinare simili rapporti, senza violare l’arcano delle coscienze e deve, invece, convincersi che esso può soltanto regolarli d’accordo con la comunità spirituale, in cui la coscienza individuale effonde l’ineffabile ed esprime e tutela ciò che normalmente, è inafferrabile e irrilevante per l’autorità temporale, per lo Stato.
Ecco in che cosa si concreta la vera libertà di coscienza.
Tutto ciò è tanto vero che può valere non solo nei confronti della Chiesa cattolica, ma anche di ogni altra comunità spirituale. Infatti che cosa diciamo noi nell’ultimo comma dell’articolo 5 del nostro progetto? Che lo Stato non disciplina quei rapporti speciali, che hanno interesse per le altre comunità o confessioni, se non dopo aver sentito queste ove lo richieggano.
Ora da tutto questo risultano due decisive conclusioni tecniche e politiche, a un tempo, e cioè:
in primo luogo, che se poniamo nella nostra Costituzione il principio della necessità di una intesa fra lo Stato e le singole confessioni religiose, ciò non è per fare piacere a una o più Chiese, ma per enunciare, nella sua piena portata e nei suoi termini più concreti, una delle fondamentali garanzie (la garanzia della libertà di coscienza) che formano appunto l’oggetto proprio e specifico di ogni Costituzione;
in secondo luogo, se questo principio, riconosciuto in linea generale per tutte le confessioni religiose, è realizzato con diverse formule tecniche per la Chiesa cattolica, da una parte, e per le altre Chiese dall’altra, ciò, come sempre, è soltanto una conseguenza del fatto che solo la Chiesa cattolica è ordinamento giuridico originario, con cui lo Stato, quindi, può e deve entrare in contatto attraverso un atto di diritto esterno fra ordinamenti giuridici primari (concordato); mentre le altre Chiese non sono ordinamenti primari o non sono affatto, o non vogliono essere, ordinamenti giuridici, e quindi lo Stato con esse non può entrare in contatto se non attraverso «intese interne», come presupposto di atti legislativi interni dello Stato stesso.
Il regime che vi ho descritto sinora e le giustificazioni che per esso vi ho date, sono tanto poco quei tali cavilli da leguleio, a cui accennava ieri l’onorevole Calamandrei, quei cavilli di un clericale preoccupato di assicurare alla Chiesa cattolica una superiorità limitatrice della sovranità dello Stato e discriminatrice fra cittadino e cittadino; sono, invece, tanto veramente l’espressione concreta dell’esatta, approfondita, moderna concezione della libertà di coscienza; che questo preciso regime e queste precise giustificazioni sono appunto le stesse preconizzate da una delle più fiere e democratiche coscienze della resistenza europea all’oppressione fascista, da una coscienza marxista e non cristiana. Qualcuno di voi avrà certo letto le pagine che Léon Blum (Commenti) ha scritto prigioniero di Vichy e della Germania hitleriana nella prigione del forte di Portalet e che sono state raccolte nel volume A l’échelle humaine. Ebbene, in questo libro (pag. 193) Blum, dopo avere rilevato i meriti acquisiti durante la guerra dalla Chiesa di Roma, e dopo avere constatato che «il concorso della Chiesa sarà infinitamente vantaggioso all’organizzazione della pace», auspica appunto che alla Chiesa di Roma e non meno a tutte le altre confessioni, sia data la sicurezza della pace religiosa e quindi la possibilità di dare il loro concorso pacifico e pacificatore alle comunità statuali e alla comunità internazionale. Ma per quale via? Per vie diverse:
alla Chiesa di Roma — «la sola, egli dice che si presenta sotto la forma di una gerarchia centralizzata e universale» — attraverso la generalizzazione del sistema dei concordati tra essa e tutti i singoli Stati;
mentre per le altre Chiese «il loro modo di rappresentanza non sarà fissato senza qualche difficoltà; perché le altre confessioni non sono costituite, come la Chiesa di Roma, sul tipo gerarchico di Impero (cioè di un ordinamento giuridico sovrano e universale)».
Ed ora veniamo al terzo e più dibattuto principio, affermato nell’articolo 5: cioè il riconoscimento dei Patti Lateranensi e l’impossibilità della loro modificazione se non per atto bilaterale.
Onorevoli colleghi, la mia dimostrazione, dopo i principî stabiliti, non richiede molte parole. Una volta stabilito il principio che lo Stato e la Chiesa sono ciascuno due ordinamenti originari, operanti su un piano di perfetta distinzione e di piena parità; e una volta ammesso che proprio il principio della loro distinzione (notate, il principio e l’esigenza della loro distinzione) esclude che i rapporti di comune interesse e rilevanza possano essere regolati con atto unilaterale di uno solo dei due; si sono poste le due promesse di un sillogismo, la cui conclusione non può essere che questa: il principio della bilateralità necessaria del regolamento dei rapporti di comune interesse, non può non applicarsi al regolamento già oggi esistente, cioè non può non importare il riconoscimento della bilateralità necessaria delle norme eventuali destinate a modificare le norme degli accordi stipulati nel 1929.
A questa conclusione si sono mosse obiezioni di varia natura: alcune di carattere tecnico ed altre di carattere politico; e, tra quelle tecniche, alcune generali e per così dire di principio e altre, invece, particolari, relative cioè a pretese incompatibilità specifiche fra singole disposizioni concordatarie e singole norme del nostro progetto di Costituzione.
Consideriamo, innanzitutto, le obiezioni tecniche di carattere generale. Esse si riducono sostanzialmente a quella fondamentale che noi abbiamo sentito enunciare fin dal primo discorso dell’onorevole Calamandrei; che egli ci ha ripetuto ieri sera e che questa sera, con un’efficacia che si avvale dello stesso tono di bonomia, con cui l’onorevole Cevolotto sa fare certe affermazioni decisive, ci è stata appunto testé ripetuta da lui nel suo ultimo intervento.
L’obiezione è questa: non si possono travasare, non si possono immettere per trasparenza (come ha detto l’onorevole Calamandrei), non si possono incorporare o incuneare o inserire nel tessuto organico della Costituzione (come ha detto l’onorevole Marchesi) le norme dei Patti Lateranensi, senza con ciò stesso contraddire al carattere costituzionale delle norme che stiamo elaborando. Come un po’ hanno detto tutti, da Orlando a Cevolotto, non si può costituzionalizzare un atto internazionale come il Trattato e un atto di diritto esterno come il Concordato, che hanno un valore storico contingente.
Orbene, noi siamo qui di fronte al più grave caso di quella reticenza, non so se gelosa o pudica, in cui si sono mantenuti di fronte a noi (laici o modesti chierici del diritto), i più illustri giuristi di questa Assemblea, gli onorevoli Orlando, Calamandrei e lo stesso onorevole Ruini per una frase un po’ oscura della sua relazione.
Eppure, bastava che essi applicassero all’articolo 5, secondo comma, una di quelle chiavette magiche che essi posseggono e che costituiscono uno degli strumenti della moderna dottrina generale del diritto, perché noi potessimo fare una scoperta di notevole importanza: perché noi potessimo scoprire che non è affatto vero che con questo comma si vogliano incorporare, incuneare, inserire, costituzionalizzare le norme del Trattato e del Concordato.
L’onorevole Pajetta, commentando una frase della relazione dell’onorevole Ruini, ci chiedeva ieri: «Ma, insomma, queste norme ci sono o non ci sono nella Costituzione? Ditecelo, per carità». Ecco che io ora le rispondo, onorevole Pajetta: «Queste norme non entrano affatto nella Costituzione».
Per convincersene, basta ricordare la distinzione tra norme materiali e norme strumentali; norme materiali quelle che disciplinano un fatto o un rapporto; e norme strumentali, e più precisamente, nel caso, norme sulla produzione giuridica, che non disciplinano alcun fatto o rapporto, ma semplicemente definiscono attraverso quale iter debbano essere prodotte certe altre norme giuridiche, che potranno essere eventualmente le norme materiali regolatrici di un certo fatto o rapporto.
Ora, la norma del secondo comma dell’articolo 5 non è una norma materiale, è una norma sulla produzione giuridica. Non è una norma che abbia per oggetto i molti precetti contenuti nei 27 articoli del Trattato e nei 45 articoli del Concordato; ma è una norma che ha per oggetto un precetto solo, e precisamente questo: cioè che le eventuali norme dirette a modificare le norme contenute nel Trattato e nel Concordato, debbono essere prodotte (ecco, perché la diciamo norma sulla produzione giuridica) attraverso un determinato iter, cioè l’accordo bilaterale. Ed è tanto vero che le norme contenute nel Trattato e nel Concordato non vengono «costituzionalizzate», restano cioè sul piano in cui si trovano ora di norme puramente di legge e non di norme costituzionali, che esse potranno essere modificate (rispettato l’iter dell’accordo con la Chiesa) senza il procedimento di revisione costituzionale, come dice appunto l’ultima parte di questo secondo comma dell’articolo 5.
Sì che il significato ultimo di questa norma, è semplicemente questo: stabilire quale sia il regime accolto dalla nostra Costituzione per le relazioni tra lo Stato e la Chiesa cattolica e stabilire, insieme, a quali condizioni dal regime prescelto si possa passare ad un altro diverso. Dei vari regimi possibili per i rapporti tra Stato e Chiesa, lo Stato italiano adotta il sistema della distinzione delle due podestà e della loro coordinazione attraverso un atto bilaterale; stabilisce, inoltre, che il passaggio da questo sistema al sistema della disciplina unilaterale delle relazioni con la Chiesa, cioè il passaggio dal Concordato a un sistema in tutto o in parte giurisdizionalista, non possa avvenire altro che attraverso il procedimento di revisione costituzionale.
Questa è la portata, questo è tutto il significato giuridico e politico della norma tanto contrastata dell’articolo 5: affermare esplicitamente quello che secondo le vostre dichiarazioni, onorevoli colleghi, nessuno vuole negare, cioè che per i rapporti tra lo Stato italiano e la Chiesa Cattolica vige il sistema concordatario e la modifica unilaterale da parte dello Stato della disciplina esistente non può avvenire che attraverso un procedimento di revisione costituzionale.
Ditemi voi ora, colleghi ed amici, se questo implica in qualche modo compressione della sovranità dello Stato o qualsiasi limitazione o menomazione dell’ordinamento giuridico italiano. Implica soltanto una garanzia che la Costituzione dà, a chi?, non alla Chiesa (Commenti — Interruzioni), ma a noi, a me, a voi, a tutti gli italiani…
Cevolotto. Ma allora perché non accettate la formula proposta dall’onorevole Togliatti?…
Dossetti. La risposta è molto facile, onorevole Cevolotto. L’affermazione generale e di principio, contenuta nella formula proposta dall’onorevole Togliatti, sarebbe stata sufficiente, se proprio da lei, dall’onorevole Togliatti e da altri ancora non fossero state fatte troppe affermazioni (Commenti a sinistra) circa l’incompatibilità tra singole disposizioni del Concordato ed alcune norme della nuova Costituzione e circa, quindi, la possibilità che noi con queste derogassimo unilateralmete a quelle. (Applausi al centro).
E veniamo, dunque, alle obiezioni di carattere particolare contro il secondo comma dell’articolo 5.
Ormai voi, onorevoli colleghi, le sapete a memoria.
Cominciamo da quella, che si pretende ricavare dall’articolo 1 del Trattato. Si dice da molti, e lo ha ripetuto ieri sera l’onorevole Calamandrei con efficacia suggestiva, che l’articolo 1 del Trattato è incompatibile con la Costituzione di uno Stato democratico. Ieri sera, mentre l’onorevole Calamandrei parlava, io mi sono affrettato a registrare un passaggio decisivo del suo discorso. Egli ha detto: «L’articolo 1 dello Statuto albertino, afferma che la religione cattolica è la religione dello Stato; quindi implica lo Stato confessionale». Ha poi soggiunto essere assolutamente pacifico che dall’articolo 1 del Trattato sia scaturito uno Stato confessionale (ed è stato a questo proposito che ha richiamato la venerata memoria di Mario Falco); e senza dirci il suo concetto di Stato confessionale (e, tra parentesi, questa omissione deve imputarsi anche all’onorevole Cevolotto), è passato poi ad argomentare come se la nozione di Stato confessionale risultante dall’articolo 1 del Trattato includesse necessariamente tutta una serie di elementi. E precisamente:
1°) un giudizio di valore, che discrimini la religione assunta come religione dello Stato da tutte le altre e che dica essere quella l’unica vera e le altre sicuramente false;
2°) una situazione complessa, che gli onorevoli Calamandrei e Cevolotto non hanno qualificato, ma che in corrispondenza del loro pensiero vorrei denominare posizione strumentale dello Stato rispetto alla Chiesa: una posizione in cui lo Stato diventa strumento, ministro, servitore o mezzo di esecuzione (sia pure a limitati effetti) di determinate finalità della Chiesa;
3°) una posizione di inferiorità delle altre confessioni rispetto alla religione dominante, e una diminuzione della capacità giuridica degli appartenenti alle altre confessioni.
Ora a tutto questo io vorrei opporre alcuni rilievi.
Primo rilievo, che ha un carattere direi quasi soltanto erudito, ma che può avere un certo interesse: non è affatto vero che sia assolutamente pacifico che lo Stato italiano, in forza dell’articolo 1 del Trattato Lateranense, sia uno Stato confessionale. Ci sono dei giuristi che non hanno affermato questo, neanche dopo i Patti Lateranensi. E proprio Mario Falco, che l’onorevole Calamandrei ha voluto citare, nelle prime pagine del suo Corso di diritto ecclesiastico ha scritto che se l’articolo 1 del Trattato aveva fatto nascere il dubbio che si instaurasse di nuovo lo Stato confessionale e particolarmente una posizione di inferiorità giuridica degli appartenenti alle confessioni acattoliche, questo dubbio fu poi chiarito dai dibattiti immediatamente susseguiti all’11 febbraio e dalla disciplina giuridica concretata nelle leggi esecutive degli Accordi.
In secondo luogo, non è esatto che l’articolo 1 del Trattato significhi adozione dello Stato confessionale con tutte le conseguenze giuridiche denunciate o lasciate supporre specialmente dagli onorevoli Calamandrei e Cevolotto. Infatti, che cosa implica necessariamente e di sicuro l’articolo 1? Non tanto un giudizio di valore con precise conseguenze giuridiche, per cui tra la religione cattolica e le altre religioni esista necessariamente e giuridicamente la differenza che passa tra la verità assoluta e l’errore; ma piuttosto una constatazione di fatto, un dato storico, cioè che la religione cattolica è la religione della grande maggioranza del popolo italiano, con questa conseguenza giuridica sicura, che, ove lo Stato creda di ricorrere ad una cerimonia religiosa, per questa deve valersi del culto cattolico, essendo questo il culto della maggioranza degli Italiani. Né possono essere dedotte delle conseguenze arbitrarie dalle proposizioni, così insistentemente citate dagli onorevoli Calamandrei e Cevolotto, dalla lettera scritta da Papa Pio XI al Cardinale Gasparri, subito dopo la conciliazione, in seguito al noto discorso di Mussolini alla Camera. Se di quelle proposizioni vogliamo valerci, non possiamo onestamente valercene che inquadrandole nel pensiero comune della Chiesa e in particolare nella distinzione, ormai classica, tra tolleranza dogmatica (inammissibile) e tolleranza pratica (possibile in determinate ipotesi concrete) e tra libertà di coscienza e libertà delle coscienze. Possiamo allora comprendere benissimo come Pio XI, dovendo soprattutto polemizzare con le tesi mussoliniane dello Stato etico e del totalitarismo, che riducevano al nulla la persona e i diritti della coscienza, abbia rivendicato in modo tanto assoluto l’autonomia della coscienza che deve, alla fine, rendere conto di tutto a Dio e non può rimettersi come ad ultima istanza, all’autorità dello Stato. Ma questa intransigenza del Papa non implicava affatto violazione della libertà delle singole coscienze, né costrizione di esse ad una adesione non spontanea e non libera alla verità. Tanto è vero che lo stesso onorevole Calamandrei (con una contraddizione sottile e profonda che — se mi permette — è il vizio intimo del suo discorso così suggestivo) non ha potuto non rendere omaggio all’insegnamento di libertà e di tolleranza svolto dall’Osservatore Romano (e in particolare dal nostro amico Gonella) durante gli anni più duri dell’oppressione. Ma si chieda l’onorevole Calamandrei, o meglio, chiediamoci noi tutti, dove l’Osservatore Romano, dove Gonella trovavano la fonte per quelle affermazioni di libertà per tutti, anche per le coscienze non cattoliche e non cristiane, se non nella intransigente difesa della legge morale fatta appunto contro ogni arbitrio individualistico o statolatra dalle proposizioni di Pio XI? (Applausi al centro). Erano appunto le rivendicazioni fatte da Pio XI le stesse che consentivano e determinavano la sua energica difesa degli israeliti di contro alle leggi razziali; erano le stesse che lo inducevano, come hanno indotto il suo successore, il regnante Pontefice Pio XII, ad esplicare quell’opera generosa e benefica a favore degli appartenenti ad altre religioni, che ha meritato da parte dei capi delle diverse confessioni solenni dimostrazioni di gratitudine e di devozione verso il Capo della Chiesa Cattolica. (Applausi al centro).
Vediamo ora se l’articolo 1 del Trattato implichi, in qualche modo, una posizione strumentale o ministeriale dello Stato rispetto alla Chiesa. Certo gli onorevole Calamandrei e Cevolotto non hanno esplicitamente usato questa formula; ma è innegabile che tutte le loro espressioni avevano appunto questo obiettivo, di prospettare ed agitare una preoccupazione, cioè che lo Stato possa essere ridotto a strumento temporale dei fini propri della Chiesa.
Ora tale preoccupazione, onorevole Cevolotto e onorevole Calamandrei, non è solo vostra, ma potrebbe essere anche nostra, se ci fosse un residuo di pericolo al riguardo. Ma non c’è. Noi crediamo che sia una conquista, ormai realizzata, di una gradualità più piena e di un approfondimento più consapevole dello spirito cristiano, il processo di decantazione del pensiero e della prassi cattolica, verificatosi nell’ultimo secolo; per cui si esclude che lo Stato possa comunque essere ridotto a strumento del fine della Chiesa.
Voi non avete altro che informarvi e cercare di prendere più intimo contatto con le manifestazioni più recenti del pensiero cattolico in proposito. Io vorrei invitarvi, per esempio, a leggere quella magnanima opera di un magnanimo intelletto che è L’Eglise du Verbe incarné di Charles Journet, il più recente trattato di ecclesiologia speculativa, in cui è magnificamente inquadrata la funzione spirituale della Chiesa, al di fuori di ogni residuo temporalistico o di ogni residuo di strumentalismo statuale: veramente, come una conquista del più genuino e integrale spirito cristiano, del più coerente spirito cattolico. (Applausi).
A questa dottrina noi ispiriamo la nostra interpretazione dell’articolo 1 del Trattato Lateranense, al di fuori delle estensioni arbitrarie che ne vorrebbero fare gli onorevoli Calamandrei e Cevolotto per ricavarne conseguenze incompatibili con le norme che vogliamo porre a base del nostro Stato democratico.
Del resto, c’è anche un argomento testuale che conforta la nostra tesi. L’articolo 1 del Trattato non riproduce integralmente l’articolo 1 dello Statuto; ossia è caduta la parte in cui si diceva che «gli altri culti sono tollerati». Perciò l’articolo 1 del Trattato, che prende semplicemente atto di questo dato concreto, essere cioè la religione cattolica la religione della maggioranza del popolo italiano, non implica nessuna qualificazione deteriore, nessuna inferiorità giuridica di principio per gli appartenenti alle altre confessioni. Ecco, infatti, quanto dice proprio il Falco, alla cui autorità ha voluto fare appello ieri sera l’onorevole Calamandrei: «Il principio generale della irrilevanza della appartenenza alla Chiesa cattolica per la capacità giuridica dei cittadini è dunque riaffermato anche dopo l’articolo 1 del Trattato del Laterano».
La norma, dunque, dell’articolo 1 del Trattato non va artificiosamente gonfiata; certo non implica nessuna discriminazione nella capacità giuridica dei cittadini; soprattutto non ha una portata giuridica rigida e predeterminata, ma riceve il suo significato giuridico positivo dal complesso dell’ordinamento, nel quale si inserisce.
Perciò fermamente ritengo che essa sia senz’altro compatibile con l’ultimo comma di questo nostro articolo 5 (che del resto risulta da una proposta concordata fra me e l’onorevole Terracini); come la ritengo compatibile con l’articolo 7 del progetto, in cui si afferma l’eguaglianza dei cittadini, e con quell’articolo 14 in cui si afferma e si garantisce la libertà delle coscienze e dei culti: articolo 14 che — l’onorevole Cevolotto vorrà certo darmene atto — è stato proposto proprio da me e con una formula iniziale che forse era anche più insistentemente esplicita nel riconoscere la piena libertà delle coscienze non cattoliche. Il che, mi sembra, può essere una prova decisiva della sincerità del mio convincimento, che l’articolo 1 del Trattato non importa la minima contraddizione o compressione per i principî fondamentali del nuovo ordinamento democratico, che stiamo elaborando.
Passiamo, ora, ad un’altra norma. Quella dell’articolo 5 del Concordato (esclusione da certi uffici dei sacerdoti apostati o irretiti da censura). È a noi tutti presente il caso famoso, che per molti può essere oggetto di commiserazione. Però non è sulla valutazione sentimentale o ideologica dell’articolo 5 del Concordato che noi ci dobbiamo soffermare (queste, se mai, ci potranno indurre a richiamare l’attenzione dell’altra parte per sollecitare una revisione); ma è sul dato puramente giuridico che noi dobbiamo ora concentrare la nostra attenzione; sulla contraddittorietà tecnica con gli articoli 7 e 14 del nostro Progetto, in cui si afferma il principio dell’eguaglianza dei cittadini.
Ora, questa contraddittorietà non sussiste. Infatti, anzitutto, l’articolo 5 del Concordato non pone un’esclusione generale per tutti i cittadini cattolici, ma solo per i sacerdoti, cioè soltanto per alcuni cittadini che volontariamente con un atto che è l’espressione di una consapevolezza e di una deliberazione suprema, misurato e meditato per anni, saputo e voluto come definitivo e irrevocabile (al modo stesso del matrimonio), sono entrati in uno status speciale, hanno acquisito poteri specialissimi e hanno assunto un impegno essenziale di perpetua subordinazione gerarchica. Quindi, possiamo già dire che non siamo in presenza di una discriminazione legale della capacità, ma di una discriminazione consensuale, fondata sul consenso del singolo: consenso, di cui, in questo caso, la legge italiana prende atto, facendo un’applicazione, particolare e a limitatissimi effetti, del principio, comunemente ammesso da tutti i cultori di diritto ecclesiastico, cioè che lo Stato riconoscendo la Chiesa come ordinamento la riconosce necessariamente «come struttura, come società disposta gerarchicamente, che genera una serie di vincoli e di relazioni tra i suoi membri» (Jemolo).
In secondo luogo, questa dell’articolo 5 non è la sola applicazione di questo principio, cioè che lo Stato può, senza contraddire all’eguaglianza dei cittadini, tener conto del rapporto speciale che essi contraggano con la gerarchia ecclesiastica. Basterà ricordare oltre la norma dell’articolo 43 del Concordato (che fa divieto agli ecclesiastici di militare nei partiti politici), gli articoli 7 e 14 della vigente legge elettorale amministrativa, i quali escludono tutti gli ecclesiastici dalla eleggibilità a sindaco e, se in cura d’anime, anche dalla eleggibilità a consigliere comunale. Basterà ricordare le leggi del 1913 e del 1933, che escludono gli ecclesiastici dall’esercizio del notariato e dalla professione di avvocato.
Se voi ritenete che l’articolo 5 del Concordato sia giuridicamente incompatibile con le norme del nostro Progetto, allora dovete ritenere che queste norme derogano anche agli articoli 7 e 14 della legge elettorale amministrativa, e derogano alle nostre leggi sul notariato e l’avvocatura. (Interruzioni a sinistra).
Altra norma, di cui si è sostenuta la incompatibilità con la nostra nuova Costituzione è l’articolo 36 del Concordato, sulla istruzione religiosa nelle scuole. A parte la forma un po’ aulica e solenne in cui l’articolo è redatto, vorrei sapere — poiché nessuno ancora qui l’ha detto — in quali disposizioni legislative e in quale disciplina amministrativa si è concretato l’impegno assunto dallo Stato nell’articolo 36. Ve lo dirò io: semplicemente in una disciplina che assicura un modesto orario settimanale di istruzione catechistica nelle scuole elementari e medie, senza che questa implichi nessuna limitazione e nessun influsso (neppure indiretto) per gli altri insegnamenti e nessuna costrizione per coloro che non desiderano ricevere l’insegnamento religioso. Ora, questo è Stato confessionale? Questa è violazione della libertà delle coscienze? Ma perché qui nessuno ha ricordato che l’articolo 6 della legge sui culti acattolici e l’articolo 2 della legge 5 giugno 1930 consentono la dispensa dall’obbligo di frequentare l’insegnamento religioso per gli alunni i cui genitori ne facciano richiesta al Capo dell’istituto? Perché nessuno ci ha detto che gli articoli 23 e 24 del decreto esecutivo della legge sui culti ammessi consente anche agli appartenenti alle confessioni diverse dalla cattolica, quando il numero degli scolari lo giustifichi, di avere l’insegnamento religioso secondo la loro tradizione?
Dove è allora la discriminazione tra i cittadini? E dove è l’intrusione confessionale?
Del resto, onorevoli colleghi, allargate un po’ i vostri orizzonti e cercate di informarvi bene sulla vita interna di quegli Stati, che alcuni di voi sono soliti portare a modello di regime laico e separatista. Per esempio, l’America. Ci sono nella vita scolastica americana delle manifestazioni, che se fossero in Italia o fossero per caso sancite nel Concordato, darebbero luogo alle più sdegnate proteste. Una rivista francese (Esprit) di molta sensibilità e intelligenza, ha dedicato uno dei suoi ultimi numeri a una analisi acuta e sistematica dell’uomo americano e della vita americana. In quel numero, Grinberg-Vinavert ci illustra la religiosità degli americani (da lui prospettata come pura evidenza pratica) e ci dice tra l’altro: «Io mi ricordo del mio stupore, quando mi si avvertì che all’Università (si noti Università non confessionale, ma laica) i servizi religiosi della domenica facevano parte integrante del programma, e che coloro che séchaient la cappella più di cinque volte per semestre erano automaticamente rimandati».
Non mi risulta che nessuna disposizione applicativa del Concordato abbia sinora costretto l’onorevole Calamandrei, quale rettore dell’Università di Firenze, a prendere simili provvedimenti a carico dei suoi studenti. E la nostra collega, e mia concittadina, onorevole Iotti, ci potrà testimoniare che simili cose non accadono in Italia neppure all’Università Cattolica del Sacro Cuore (Approvazioni al centro).
Veniamo, infine, all’articolo 34 del Concordato (circa la giurisdizione ecclesiastica nelle cause matrimoniali). L’ho conservato deliberatamente per ultimo, perché è la maggiore ragione di scandalo; è, come ci ha detto l’onorevole Calamandrei, la più grave rinunzia fatta dello Stato italiano alla sua sovranità; è la più grave delle manifestazioni del nostro confessionismo statuale; la più intollerabile delle discriminazioni tra gli appartenenti alle diverse confessioni. Potrei valermi, al riguardo, di importanti considerazioni puramente tecniche per dimostrare come lo Stato possa senza alcuna limitazione della sua sovranità, anzi in forza di un suo atto sovrano, rinviare o fare valere nel proprio ordinamento così una norma, cioè un atto legislativo, come una sentenza cioè un atto giurisdizionale, di un altro ordinamento originario.
L’onorevole Cevolotto aveva ragione quando ci diceva che il riconoscimento dell’originarietà della Chiesa e, quindi, della sua sovranità e del suo ordinamento come esterno all’ordinamento statuale, implica che le norme canoniche o le sentenze canoniche non possano valere nel nostro ordinamento se non in forza di una norma o di un atto della sovranità statuale. Esattissimo. Ma questa norma operante il collegamento tra i due ordinamenti è appunto quella che noi troviamo nell’articolo 34 del Concordato. Per dimostrarvi che questo articolo 34, questo scandalo degli scandali, non contraddice alle considerazioni più raffinatamente tecniche, posso servirmi di due argomenti decisivi.
Anzitutto un argomento di carattere direi quasi familiare, intimo alla nostra Commissione dei 75, e precisamente alla parte più intima della Commissione, il Comitato dei 18. Al Comitato dei 18 venne sottoposto l’articolo 94 del nostro Progetto, che qualifica la funzione giurisdizionale come «espressione della sovranità della Repubblica». Io interpellai, allora, l’onorevole Calamandrei sul significato esatto di questa qualifica (non perché io avessi alcun dubbio al riguardo, ché mi pareva che anche il mio poco lume mi consentisse di vedere chiaro e di non avere esitazioni, ma per avere da un processualista tanto autorevole una conferma decisiva). Orbene, l’onorevole Calamandrei, da me richiesto se in qualche modo l’articolo 94 potesse indurre un contrasto o una incompatibilità con il rinvio da parte del nostro ordinamento ad atti giurisdizionali di altro ordinamento, e specificamente alle sentenze canoniche previste dall’articolo 34 del Concordato, rispose di no nel modo più categorico e più esplicito, richiamando appunto i concetti che or è poco io ho avuto l’onore di esporvi. In più l’onorevole Calamandrei mi dichiarò che la qualifica dell’articolo 94 del nostro Progetto aveva semplicemente un carattere dottrinale, non implicava dirette e specifiche conseguenze giuridiche concrete, ma voleva solo togliere di mezzo una dottrina, che in passato aveva avuto seguito e che tendeva a considerare la funzione giurisdizionale come una funzione minore dello Stato rispetto alla funzione legislativa e alla funzione di Governo; sì che alla fine l’articolo 94 voleva solo riaffermare il principio che la giurisdizione è espressione della sovranità statuale alla stessa stregua della legislazione e della funzione di governo. Io, naturalmente, presi atto di queste dichiarazioni e mi convalidai nel mio convincimento che non vi possa essere contraddizione tra l’affermazione della giurisdizione come espressione della sovranità dello Stato e il rinvio che lo Stato stesso faccia, in virtù di una propria norma e secondo un congegno da esso disciplinato, ad atti giurisdizionali di altro ordinamento. A rimuovermi da tale convincimento non può naturalmente valere l’improvvisa e sorprendente conversione, con cui l’onorevole Calamandrei ha nel suo primo discorso in questa sede accennato (piuttosto sbrigativamente) a una contraddizione tra l’articolo 34 del Concordato e l’articolo 94 del nostro Progetto.
In secondo luogo, a conforto della mia tesi, si può fare un raffronto che mi sembra tale non solo da togliere ogni preoccupazione in ordine all’articolo 34 del Concordato, ma se mai da orientare piuttosto le nostre riserve ben più giustificatamente su un altro caso di rinvio ad atti giurisdizionali stranieri. Ci sono, onorevoli colleghi, da quarantacinque anni, esattamente dal 1902, le cosiddette Convenzioni dell’Aja e poi altre convenzioni con gli Stati successori della monarchia austro-ungarica, le quali, proprio in materia di rapporti familiari, impegnano lo Stato italiano a dare esecuzione in Italia a sentenze pronunziate da tribunali stranieri, secondo la legge straniera, e dichiaranti, tra l’altro, la nullità (anche per capi non conosciuti dal diritto italiano) del matrimonio o addirittura dichiaranti il divorzio. Qui sì che ci possiamo trovare di fronte a una grave contraddizione con i principî fondamentali del nostro ordine pubblico: specialmente quando accade, come purtroppo spesso accade, che cittadini italiani, attraverso un processo fraudolento con l’ausilio di professionisti specializzati e il dispendio di grosse somme, possano, per esempio, recarsi in Isvizzera e ottenere in breve tempo il cambiamento di cittadinanza, lo scioglimento del matrimonio, l’esecutorietà in Italia della sentenza di divorzio e, quindi, di nuovo il riacquisto della cittadinanza italiana.
Fabbri. Questo non è esatto.
Dossetti. Possiamo così ritenere demoliti tutti i presunti ostacoli tecnici all’approvazione dell’articolo 5. Restano, ormai, soltanto le obiezioni di carattere politico. Non vi spaventate. Non voglio fare per queste un’analisi e una confutazione così minuta, come ho fatto, ed era il mio compito, per le obiezioni di carattere tecnico. Del resto, alle argomentazioni propriamente politiche hanno già risposto con sapienza ed efficacia i miei amici onorevoli Jacini e Giordani. Mi basteranno pochissimi accenni.
Sostanzialmente le riserve, che sono state da più parti sollevate, si riducono a queste: che, anzitutto, Trattato e Concordato costituiscono degli atti importanti, ma contingenti e con un contenuto non in tutto attualissimo e politicamente adeguato allo spirito della nuova democrazia italiana; che se l’Italia, come ha detto l’onorevole Cevolotto, non vuole e non può, purtroppo (il «purtroppo» l’aggiungo io) denunziarli ora che si trova prostrata da tante rovine e preoccupata da tanti gravissimi problemi, d’altra parte non si può e non si deve cristallizzarli nella Costituzione; che inoltre la norma dell’articolo 5 porrebbe lo Stato in una posizione di inferiorità di fronte alla Chiesa nel caso di eventuali nuove trattative, perché vincolerebbe costituzionalmente lo Stato a non introdurre nessuna modificazione se non bilateralmente concordata.
Ora, alcune di queste obiezioni erano già cadute prima dei discorsi dei miei amici, demolite già da altri interventi. Ciò che hanno detto l’onorevole Orlando e l’onorevole Nitti, con tanta autorità e diretta scienza e personale esperienza, circa i precedenti dei Patti Lateranensi, ci dimostra come essi fossero maturi nella coscienza del popolo italiano, si può dire già conquistati assai prima del 1929. Così, quando l’onorevole Marchesi ci ha ripetuto che nessuno mai si è nemmeno sognato di denunciare gli Accordi del Laterano e di rinnegare quella che è la loro validità fondamentale (cioè la soluzione della Questione romana, inscindibilmente risolta dal Trattato e dal Concordato), ci ha confermato che la firma che sta in calce agli Accordi, oppure singole disposizioni marginali (come quella dell’articolo 5 del Concordato) non possono in alcun modo incrinare la sostanza della conquista storica che essi rappresentano e che il popolo italiano, la maggioranza del popolo italiano, ha democraticamente confermato e ratificato nelle elezioni del 2 giugno, dando il voto a quei partiti che hanno ora la maggioranza in questa Camera, specialmente a quei partiti popolari (che non sono soltanto la Democrazia cristiana) che avevano nel loro programma elettorale o nelle dichiarazioni solenni dei loro congressi come punto fermo il principio del riconoscimento dei Patti Lateranensi.
Ne è vero che l’articolo 5 del Progetto implichi per lo Stato un vincolo maggiore di quello che può legare la Chiesa, specie in ordine a future trattative. Non bisogna dimenticare che anche la Chiesa è legata ad una sua Costituzione, tanto più legata in quanto alcune norme di questa Costituzione sono per la Chiesa di diritto divino e, quindi, non modificabili neppure dall’autorità del Papa. Non bisogna dimenticare che la norma pacta sunt servanda, lega giuridicamente e moralmente gli organi della Chiesa, con una assolutezza e una intransigenza non conosciuta dagli organi dello Stato. Tutti, infatti, conosciamo nella storia molti casi di concordati violati dagli Stati; non ne conosciamo nessuno di concordati violati, anche soltanto in una norma, dalla Chiesa. E dire che per la Chiesa i concordati sono stati molte volte un cattivo affare, tanto che è diffuso tra i canonisti l’aforisma: historia concordatorum, historia dolorum.
Infine, c’è la constatazione, che ha indotto l’onorevole Nitti a dichiararsi favorevole all’articolo 5, e che forse l’onorevole Nitti avrebbe fatto bene a sviluppare maggiormente, sì da renderla più persuasiva per tutti. Ad ogni modo egli ha posto nettamente il nucleo dell’argomento decisivo, al quale è ben difficile sottrarsi: non riconoscere oggi esplicitamente e puramente il principio della bilateralità necessaria per la produzione delle eventuali norme dirette a modificare la disciplina esistente, cioè i Patti del Laterano, significa ferire e sconvolgere tutto il nostro sistema giuridico-politico dei rapporti fra Stato e Chiesa.
Quando qualcuno di voi, onorevoli colleghi, ci domanda perché noi esigiamo che nel nostro testo costituzionale sia posta espressamente la norma che gli Accordi Lateranensi non possano essere modificati che per atto bilaterale, noi possiamo rispondere: perché abbiamo sentito qui dentro troppe affermazioni intese a sostenere la incompatibilità di singole disposizioni del Trattato e del Concordato con i principî della nostra nuova Costituzione e del nuovo Stato democratico, e tali affermazioni implicherebbero una conseguenza inevitabile, cioè che nell’atto in cui noi ci apprestiamo a porre nuove norme costituzionali, che si suppongono contrastanti col Trattato e col Concordato, in questo stesso atto noi non soltanto denunzieremmo implicitamente il Trattato e il Concordato, ma addirittura violeremmo il principio che, tutti d’accordo, vogliamo assumere a base del nostro sistema di rapporti fra Stato e Chiesa, ossia il principio concordatario.
Perché questo non sia, non c’è che un mezzo: riconoscere esplicitamente che tra gli Accordi Lateranensi e le disposizioni della Costituzione non vi è contrasto, e stabilire formalmente che il passaggio dall’attuale sistema concordatario al sistema in cui lo Stato unilateralmente disciplina i rapporti con la Chiesa non può avvenire oggi surrettiziamente e per trasparenza (per usare proprio una frase dell’onorevole Calamandrei) e non potrà avvenire domani in forza di una leggina deliberata quasi di sorpresa e con una maggioranza fittizia ed effimera, ma solo in forza di un atto solenne, che sia espressione sicura della maggioranza del popolo italiano, cioè in forza di un procedimento di revisione costituzionale.
Questo è il significato giuridico, questa è la portata politica della norma che noi vi chiediamo di approvare. Con essa voi non date tanto una garanzia alla Chiesa, ma date una garanzia a tutti noi, a voi stessi (se, come dite, tanti sono anche tra voi i cattolici), date una garanzia alla libertà di coscienza di ogni cittadino. Ecco, perché questa è una norma da porre nella Costituzione: perché interessa noi tutti, in quanto membri della comunità statale italiana e interessa la maggioranza degli italiani, in quanto membri di quella comunità spirituale che è la Chiesa Cattolica.
Onorevoli colleghi, voi avete sentito nel dibattito, che ha preceduto questo mio discorso, la volontà comune che anima molti dei membri di questa Assemblea (vorrei sperare tutti), perché dal nostro sforzo risulti una Costituzione che dia veramente un volto nuovo al nostro Stato, che assicuri a tutti gli italiani una democrazia effettiva, integrale, non solo apparente e formale, ma veramente sostanziale, una democrazia finalmente umana.
Orbene, quando noi difendiamo l’articolo 5 del Progetto, noi non difendiamo una norma che interessa solo la Chiesa, ma difendiamo una norma che non può essere isolata dalla volontà comune e dall’impegno totale per la edificazione dello Stato nuovo, genuinamente e integralmente democratico.
Per me l’articolo 5 ha una stretta, inscindibile connessione con l’articolo 1, nel quale abbiamo affermato i caratteri della nostra nuova democrazia, e con tutte le altre norme — particolarmente con quelle relative ai rapporti economico-sociali — in cui noi abbiamo voluto fissare le nuove istituzioni, non solo libere, ma anche sicuramente giuste per tutti, per i poveri come per i ricchi, per i grandi come per i piccoli: ha una tale connessione, che si può dire che l’articolo 5 contenga, veramente, l’animazione nuova delle nuove strutture economiche, sociali e politiche dello Stato italiano.
Ecco perché noi non possiamo rinunziare all’articolo 5. Per non rinunziare all’anima del nostro futuro corpo statale. Perché non sia incrinato il nostro sogno di una comunità politica sostanzialmente e non solo formalmente rinnovata. Perché non si inserisca, in questo momento decisivo (come già alle origini del nostro primo Risorgimento) alla base del nuovo edificio quel contrasto interiore, quella riserva che potrebbe impedire a molti di noi, se non di dare la nostra opera e il nostro contributo esteriore, per lo meno di effondere nello sforzo ricostruttivo tutta la nostra interiorità, la porzione più gelosa e più preziosa del nostro spirito.
Sono stati ricordati qui più volte i nostri morti: tutti i nostri morti; ma specialmente i morti della resistenza all’oppressore, i morti per la libertà e la giustizia. Non è per indulgere a una convenienza retorica, che io qui voglio ricordare, fra i nostri tanti morti, un Morto a me particolarmente vicino.
Quasi due anni fa, il giorno di Pasqua del 1945, sull’Appennino Reggiano. Prima delle prime luci dell’alba, venivamo svegliati dall’annuncio che truppe, o meglio orde tedesche e fasciste avevano rotto una parte del nostro schieramento sul Secchia. Incominciava così una giornata di Pasqua, che fu giornata di duri combattimenti. Al mattino eravamo costretti a retrocedere; nel pomeriggio arrestavamo le orde che erano avanzate soprattutto valendosi di un tradimento (una parte di brigata nera si era camuffata da partigiani). Avevamo già avuto dei morti, parecchi morti. Verso sera il nemico fu ricacciato. La vittoria. Ma la sera fu triste. Proprio una delle ultime fucilate aveva colpito Elio, il nostro vice comandante di Brigata. Era venuto alla nostra brigata da formazioni garibaldine, dove si era fatto stimare ed amare. E tutti noi l’avevamo stimato ed amato, per la sua capacità, il suo valore, la sua bontà. Era ferito mortalmente, ma ancora non se ne rendeva conto e sperava nell’intervento chirurgico di un nostro amico; ma l’amico, oggi qui tra noi, non poté che annunziarci che la morte era ormai imminente. E allora qualcuno dovette assumersi il compito di far sì che quel sacrificio, iniziato con tanta generosità, conoscesse anche la suprema generosità: quella di consumarsi consapevolmente. Credetti così di dovergli dire che la vita era ormai finita per lui e di dovergli chiedere che egli consapevolmente la offrisse per noi: perché tutti diventassimo più buoni, più fedeli alla bandiera che servivamo, più disposti a immolarci come lui per il rinnovamento d’Italia. Bastarono poche parole perché egli comprendesse ed assentisse, e con gli ultimi esili sforzi della voce confermasse ciò che gli avevo chiesto. E noi presenti giurammo allora, di fronte a un sacrificio così grande e così consapevole, che avremmo sempre sentito e osservato l’impegno che esso importava per noi.
Questo è l’impegno, con il quale oggi vi parlo. Esso dice a voi tutti: a voi, venerandi maestri e seguaci di un’idea — l’idea liberale — che voi sentite ancora pulsare nel vostro cuore ma che, a un tempo, sentite doversi aprire e integrare in idee nuove; dice a voi, più giovani che avete conosciuto e superato le ultime battaglie nell’anelito rinnovatore della giustizia; dice a tutti che dobbiamo avvertire la pressura e il gemito del nuovo mondo che sta sorgendo e che dobbiamo inchinarci su questo mondo nuovo, con religioso rispetto, perché in nulla venga menomato e tradito il messaggio e il compito che i nostri morti ci hanno lasciato.
Il messaggio, cui si richiamava il primo discorso dell’onorevole Calamandrei, è un messaggio integrale: occorre non solo accogliere il testamento che ci sospinge a costruire nuove strutture sociali; ma occorre riconoscere che nelle nuove strutture, perché siano veramente nuove, più giuste e più umane, noi dobbiamo infondere il meglio di noi, la pienezza integrale della nostra coscienza. Ed è questo il momento in cui possiamo farlo, perché è il momento in cui si può verificare il vaticinio di un grande Cardinale, l’arcivescovo di Baltimora, il Cardinale Gibbon, che sessant’anni fa scriveva in un rapporto riservato alla Santa Sede: «Il secolo futuro sarà il secolo, in cui la Chiesa non si accorderà con i Principi o con i Parlamenti, ma si accorderà con le grandi masse popolari». (Vivissimi applausi — Moltissime congratulazioni).